LA CORONA DI LUCE
AROM
ESPERIENZE: LA CORONA DI LUCE
Gli occhi, dei quali si parla comunemente, non sono i soli. Con esattezza, si dovrebbe parlare di assai più di due occhi o, anche meglio, di un unico «occhio», come coscienza spirituale che può spostarsi in vari « centri », realizzando in ciascuno di essi un suo «organo » e un «modo » di visione, il quale in ciascuno di essi ha aspetti e caratteri inconfondibili.
E’ ciò che, almeno, risulta alla mia esperienza personale. Aggiungo però che a tutt’ora posso parlare con cosciente certezza solamente di tre di questi centri di visione. Ad essi si possono dare i seguenti riferimenti rispettivi: la sommità del capo, il centro della fronte, e la regione del cuore. Gli studiosi della materia sanno che queste stesse sono le localizzazioni date dall’insegnamento indù al Sahastâra-cakra, all’â??acakra e all’anâhata-cakra.
Ripeto che ciascuno di questi «centri » dà una visione sua particolare diversa l’una dall’altra quanto diversi possono essere i vari sensi del copro fisico. Dopo di che, cercherò di dire che per via sono personalmente giunto alla loro conoscenza e come questa mi si è manifestata; limitandomi, per ora, al primo di essi.
Premetto che le pratiche, che ora riassumerò brevemente sono seguite ad altre, che già mi avevano condotto ad alcuni fenomeni, che ebbi occasione di riferire su queste stesse pagine. Credo questa premessa sia necessaria, perché può darsi che io abbia portato alla pratica, che ora descriverò, una condizione spirituale, alla quale sia da attribuirsi il successo, e mancando la quale sarebbe stato anche possibile che non fossi giunto a nulla.
Dunque, seduto in posizione comoda di fronte al sole, avendo vivo il senso della sua presenza come un essere spirituale, ho preso a fissarlo un poco ad occhi socchiusi, chiudendoli poi e continuando a fissare di sotto alle palpebre.
Questo fui portato a farlo numerose volte, sino a che ad un tratto il modo di apparirmi del sole cambiò completamente. Esso si animò delle tinte più pure e più fulgide, prima come lampi, poi con contorni crudamente tagliati, poi come lenti âloni versi, purpurei, violetti, ecc. che volteggiavano intorno alla luce centrale.
Insisto sulla sensazione di cosa vivente che possedevano questi colori; sensazione che temo di non poter comunicare e alla quale si aggiungeva una sensazione corrispondente di colori «morti » nei riguardi di tutti glia altri colori comuni, per smaglianti che fossero.
Queste esperienze le continuai, prolungandole fino a che sentivo di poterlo fare senza stancarmi troppo. Ripetendole per molti giorni, mi accorsi di riuscire a fissare il sole a lungo senza battere le ciglia. Aggiungo che il respiro ritmico e la concentrazione dell’energia sottile del soffio al sommo del capo mi furono utili per rendere più efficace la prova; ma non credo che questa sia una condizione proprio necessaria.
Al principio l’esercizio non è piacevole, perché non tardano a venire dei mali di testa, oltre ad un costante indolenzimento alle pupille, che può durare per qualche settimana. A chi volesse seguire la mia stesa pratica, consiglio però di non allarmarsi, perché per quanto mi riguarda posso affermare che la vista non ne soffre affatto, e che i dolori di testa sopravvengono soltanto quando l’esperienza sia stata prolungata otre misura. L’indolenzimento delle pupille è sopportabile, e finirà anch’esso con l’abitudine alla pratica, e, soprattutto, con l’accorgersi di che cosa è che, in noi, entra in giuoco, tanto da potersi regolare in proposito. Lo sguardo fisico in realtà è un semplice appoggio, e si passa ad altre condizioni di coscienza.
Giunto dunque a qualche cosa, come una meditazione profonda, venne un momento in cui il caos dei colori che si destavano movendosi pigri intorno all’astro a poco a poco si orientarono secondo un ordine concentrico, perdendo l’intensità delle loro tinte, per finire poi tutti in una luminosità dorata e solenne, la quale in certi momenti raggiunse uno splendore tale , che la stessa luce del sole, quella luce ordinaria che splende su tutti, non mi sembrò più che una pallida cosa al confronto.
Proseguendo ancora, in questi ordini circolari mi apparvero figure personalizzate, in gruppi quasi come ghirlande; ma ad un certo momento la visione fu presa come da un rapidissimo moto di espandersi, fino a scomparire del tutto. Lo stesso Sole non lo vidi più.
Lo stato interno, era come di incapacità a formulare qualsiasi pensiero di richiamare qualsiasi parola. E a questo punto, tutto sta nel sapersi mantenere nella condizione spirituale del «silenzio» e dell’«immobilità» più completa.
La vista, quella vista che guarda soltanto innanzi a sé, quella degli occhi di carne insomma, è interamente sospesa. Ed ora «scivola» una sensazione nuova. Alla sommità del capo si avverte una chiarità-occhio che si apre lieve lieve dapprima, formandosi d’intorno la visione di una corona di luce tenuamente dorata; corona, che si allarga sempre di più in cerchi ogni or più grandiosi, sempre più profondi e possenti, quasi come onde di suono.(1)
(1)(Nel «Rituale Mitriaco» del Gran Papiro Magico di Parigi, si posso ritrovare le stesse due fasi successive, però in un’operazione non di immedesimazione contemplativa, ma di azione teurgico-cerimoniale. Prima si schiudono le porte e appare il mondo degli dèi che stanno dentro di esse; poi i raggi solari convergono nel teurgo, che ne diviene il centro.)
Riappaiono ora le ghirlande di figure moventesi in un lento moto circolare, componendo delle scene che si trasformano con grande lentezza e con solennità maestosa, sopra uno sfondo chiaro d’oro in fusione.
Talvolta l’esperienza prende un carattere assai diverso. Il centro coronale diviene un centro che proietta linee fulminee, le quali con una precisione inimmaginabile talvolta descrivono figure di una complessità sbalorditiva, talvolta tracciano qualche cosa come grandiosi simboli alchemici o magici. Ciascuno di quest’ultimi imprime nello spirito una sensazione indelebile e profonda, che è anche come di una conoscenza, che ancora non si sa afferrare.
Devo mettere in relazione a questi risultati un linguaggio realmente nuovo in cui presero a parlarmi i capolavori della grande pittura: Raffaello, Leonardo, Michelangelo, Correggio.
Mi è sembrato di comprenderli soltanto allora e di scoprire soltanto allora un senso arcano nascosto in essi, che li trasfigurava.
Sentivo con un’evidenza diretta e irrefrenabile che le forme, i colori, le scene e le figure visibili immediatamente in queste opere d’arte non erano che SIMBOLI, non erano che ombre gettate sulla luce. Attraverso di esse, ed accendendosi in esse, erano gli stati della contemplazione trascendente e solare che mi riscaturivano dal profondo; e sentivo che l’adombramento di essi – e non cosa alcuna che venga dagli uomini – era la sostanza vera di tutto quello che i creatori hanno fatto di grandioso e di sublime in ogni tempo. Ripeto che questa non è una teoria; è una evidenza che mi si è presentata direttamente, d’un tratto, insieme allo stupore per il fatto che fino a quel momento non mi ero accorto di nulla.
Ad ogni modo, tornando uomini nella vita ordinaria, oltre che il ricordo indelebile di quelle contemplazioni, si porta in sé un’ondata quasi insostenibile di energia creativa, una nuova volontà di realizzazione, una ricchezza e una rapidità delle immagini, che non offre confronto.
Si porta anche la sensazione diretta che ciò che gli occhi fisici ci fanno vedere nel mondo, non sono che minimi frammenti fissati , apparizioni sporadiche di un tutto. La vista, ritornata nei limiti della prigione corporea, sbatte contro di essa come un uccello rinchiuso nel buio. Fra ciglio e ciglio essa sente una quantità di cose, che pure non riesce a vedere. Essa anela di sciogliersi; anela di tornare alla luce, all’aurea corona di luce intronata al sommo del corpo. Quella corona nessuno potrà mai strapparla a chi una volta l’abbia conosciuta; né vi è sovrano della terra che potrà cingerne una più bella.
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