IAGLA - ESPERIENZE: LEGGE DEGLI ENTI
IAGLA
ESPERIENZE: LEGGE DEGLI ENTI
Non espongo queste mie esperienze per il gusto del sensazionale e del meraviglioso di qualche lettore. Miro soltanto ad indicare un problema, che credo assai importante, quale è sorto da fatti; e a far riflettere coloro che volessero avventurarsi nei domini della magia sui pericoli reali e sulle responsabilità gravi che ne derivano. Questo secondo punto è stato già messo in rilievo. Non è male insistervi; soprattutto là dove non si esita ad esporre al pubblico con un minimo di veli ciò che era stato sempre riservato a cerchie ristrette di eletti.
Nel mio caso personale non ritengo opportuno parlare della via che mi ha condotto alle esperienze. Il carattere assai individuale e poco metodico di essa; il concorso di stati d’animo speciali (iniziai le «pratiche» in guerra e in alta montagna); il ricorso a ciò che qualcuno, in queste pagine, ha chiamato acque corrosive, ossia a mezzi che nella grandissima maggioranza dei casi conducono a deviazione o degradazione; per tutto ciò, chi legge questi studi per trovarsi orientamento e guida potrebbe trarre dal mio discorso in proposito poco di utile.
Aggiungo che ancor oggi non so perché mi sia dato a queste pratiche. Delle scienze iniziatiche, non sapevo quasi nulla. Non solo ma i mezzi a cui ricorrevo destavano un’insofferenza e una ripulsa nel mio organismo. Fu la volontà che agì. E con la sola volontà, con la temerità congiunta ad una certa forza di disperazione mi aprii il passo. Partivo da uno stato di disgusto completo. Non mi attraeva più nulla nella vita. Uno squallore, e pure tutto l’anelito di un adolescente. Volli portarmi gradatamente a morire. Se vi fu, al principio, un movente di «desiderio», fu appunto un senso di voluttà per la dissoluzione.
Lascio da parte tutto questo. So che molti hanno attraversato degli stati d’animo analoghi. Andai adunque incontro alla morte. L’ambiente psichicamente saturo di guerra e di altezza propiziò l’avventura, e forse le dette una direzione, che altrimenti non avrebbe avuta.
Passi oltre.
Con la coscienza di oggi posso dire che il senso della via percorsa da quel tempo fino ad ora è quello stesso che si trova dato in queste pagine. Corrodendo il legame della mia coscienza con il mio corpo, mi trovai «fuori dalle acque». Di contro alle forze sopra-sensibili, tenni fermo. Poi mi riaffermai, agii.
Ed ora espongo alcuni stadii dell’esperienza, per giungere al problema accennato.
«Qualcosa» sta in agguato ad ogni avanzata dell’uomo che si libera: pronto a colpirlo. Dapprima sul piano mentale così: alle prime fasi del distacco si ha un arresto del processo di cerebrazione. La mente è immobilizzata come in uno stordimento. Subentra poi uno stato speciale, che vorrei chiamare stato di chiarezza o di evidenza. Esso non conosce più ragionamenti, concetti, dubbi. Non vi sono dei «problemi», ma dei bisogni profondi, vissuti, di conoscenza, ai quali segue il balenio di un’evidenza diretta, un’idea con carattere di rivelazione, di certezza perentoria, percuotente, assoluta.
Sotto queste illuminazioni, l’anima restava interamente passiva. Pervenni a muoverla. Allora avvenne come un crollo. Sperimentai l’illusione delle evidenze di prima; vidi che tutto poteva rivestire tale carattere di evidenza, anche verità opposte, a ciò bastando che l’anima, in quello stato, se le proponesse. Fu un momento di spavento – ed io passai sull’orlo dell’abisso della follia.
La «relatività della verità» è un luogo comune filosofico; e non certo a me, studioso di filosofia, poteva fare impressione. Ma fra questa, che è una semplice nozione intellettuale, e quell’esperienza, non si può fare nessun confronto. E’ il sentimento di una mancanza assoluto di terra ferma, è il sentimento del precipizio, e di un gelido mortale isolamento. Senti il mio «IO» sul punto di sfasciarsi e di dissolversi nel caso cieco dell’incoerenza. Mi salvò una specie di violenza sacrilega, l’ardire di un’affermazione assoluta che riaprì il circolo. Ritrovai un appoggio: ma esso fu l’azione stessa al luogo della «verità».(1)
(1)Quando, a differenza del nostro collaboratore, la realizzazione avviene in una forma immaginativa e visuale anziché emotivo-intellettuale, le fasi trascritte corrispondono a quelle «figure» meravigliose che poi si dimostrano spettri ed illusioni. Ciò, come abbiamo già notato, avviene in uno stato di parziale liberazione del corpo sottile o mentale, come nel sogno. Non superato, questo «stato di evidenza» si ripercuote nella vita normale con un’inclinazione alla superstizione, alla credulità e al fanatismo.
Ed ecco che in fasi più spinte del distacco il pericolo ritornò, sotto un’altra forma. Fu una specie di orgasmo fisico, parossistico, crescente sino ad un punto-limite. Là sentii che una scarica doveva avvenire: la crisi epilettica, o qualche cosa di simile, fors’anche di più terribile, attendeva, pronta. Passai di nuovo per un fil di rasoio. La forza che avevo destato prese un’altra direzione. Lentamente, si verificò qualche cosa di simile ad una «trasfigurazione»: una estasi, una dilatazione gaudiosa della conoscenza. Quel senso di liberazione, di respiro, a nulla saprei paragonarlo. Per il confronto con la mia conoscenza precedente ed abituale, trovo una sola imagine: la veglia più lucida e cristallina sovrapposta allo stato del sonno più profondo, più ipnotico, più torbido, più lèteo. Ciò che mi sentivo prima, mi apparve la cosa più assurda, più sciocca, più inverosimile che si possa escogitare.
Naturalmente, conosciuto che ebbi questo stato, nel ripetere le esperienze seppi la via per scogliere l’incontro con detti punti critici. Ciononpertanto rilevo che psicologicamente l’andamento del fenomeno è uguale nel «rimbalzo degli effetti» di cui dirò più oltre; e per questo mi ci sono soffermato.
Conobbi le «presenze», conobbi ciò che è, senza avere corpo. Ma non sotto specie di imagini astrali, invece intensivamente, come sensazione di «campi di forza» - per usare questo termine molto espressivo dei fisici.
Il mio atteggiamento costante di volontà mi portò a rapporti immedesimativi, a sprofondamenti che paralizzavano la visione. Conobbi, in ogni modo che fulmini, tuoni e tempeste non vi sono soltanto nel mondo fisico. Divenni prudente. Seppi rinunciare a molto, al fine di tenere nel campo al quale via via mi restringevo. E a questo punto intervennero i fatti, che voglio considerare in modo particolare.
Mi risulta che nel mondo degli «enti» esiste una legge di necessità, paragonabile a quella fisica dell’azione e della reazione. Quando si crea una resistenza di contro al vortice di un ente, si crea la causa di un effetto; tanto più, quando si opera un’azione magica. L’effetto è una reazione, cioè una forza dell’ente, che si volge contro chi resiste od agisce. Se l’operatore sa resistere la forza si scarica altrove, MA IN OGNI CASO SI SCARICA. Le «linee di minor resistenza» allora sono costituite dalle persone strette da un legame di simpatia od anche di sangue, con chi agisce. Questo, lo so dall’esperienza; e questa conoscenza mi apri gli occhi sopra un mondo di nuovi significati.
Seppi che è possibile creare dei patti: pagare con un’altra moneta. Pagare, per esempio, con valori della vita fisica e materiale il grado e il potere conquistato nel sopra-sensibile. Quando chiaramente lessi il perché dell’afflizione e delle miserie, apparentemente inesplicabili, di santi e di iniziati! Così pure la dottrina della cosi detta «espiazione vicaria» mi risultò tutta evidente: è possibile rimuovere in via sopranaturale mali e «peccati» di altri, però a condizione di prenderli sulla propria persona. O viceversa.
Io però non accettai nessun patto, non scesi a nessuna concessione. Non per paura, non per egoismo, ma per la sete di incondizionato che mai mi abbandonò. Riuscii quasi completamente a parare i colpi diretti successivamente alla mente (stati di astemina, di esaltazione, ecc…),poi al mio organismo, poi allo stesso ordine delle mie faccende pratiche. Ed allora accadde che le reazioni cercarono un’altra via, si scaricarono su altri esseri. Lo seppi con certezza pel tramite di visione del fatto che poi doveva accadere, anche a distanza di città; e questa visione balenava dopo le operazioni, ed era accompagnata da un senso di soluzione, analoga alla soluzione delle crisi parossistiche di cui ho detto prima, analoga all’evidenza di un accordo che chiude armonicamente una frase musicale.
Ho detto quali sono le linee naturali di minor resistenza. Aggiungo però che esse sono realizzate non appena si domini ogni attaccamento e ci si chiuda ad ogni risonanza affettiva. Sono certo infatti che la cosa non accadde per ragioni di vendetta o di rappresaglia, ma per una legge naturale ed impersonale del mondo sottile.
Ogni legame affettivo è come un tubo psichico di comunicazione fra due persone, e come soluzione prima e più immediata le reazioni parate dall’una vanno, attraverso di esso, sull’altra persona. Ma la disciplina di «purificazione», su cui tanto si insiste in magia, la realizzazione dell’impassibilità, della neutralità, del distacco, distrugge la comunicazione. Vi è una legge, allora, che conduce le reazioni su altri esseri predestinati, e che noi possiamo non conoscere? Lo ignoro, ma lo credo.
Non nascondo che da questi fatti – i più significativi sono recenti – sono stato assai scosso. Intendiamoci: a scrupoli moralistici, a superstizioni di «bene» e di «male», a manie di pietà e di compassione posso, in me e fuori, imporre il silenzio. Ma se il problema si presentasse altrimenti; se fosse vero che ciò a cui ho accennato accade per una debolezza in me che non conosco ancora, se accade per il fatto che non so chiedere al mio «Io» una forza ulteriore; in questo caso, per un punto di dignità interiore, sentirei una responsabilità da assumere in pieno e senza scuse.
E’ possibile affermarsi nel sopra – sensibile. E’ possibile da là, agire in qualsiasi senso, nel «male» come nel «bene»; E’ possibile, per sufficiente forza e sufficiente rinuncia, sottrarsi agli effetti, mantenersi in piedi fra colpi che non intaccano, al di sopra di ogni legge – ma gli effetti è possibile anche annullarli, sospenderli nel vuoto? E’ possibile, in altre parole, spezzare la legge di azione e di reazione degli enti?
Questo, oggi come oggi, non lo so; e stimerei come grande ventura incontrare chi, più innanzi di me, sapesse e volesse dirmelo. A questo proposito, mi fece molta impressione ciò che Meyrink fa dire ad un personaggio nel suo «Golem».
«Lei mi domanda come mai, lontano come sono dalla vita, io abbia potuto diventare da un momento all’altro un assassino. L’uomo è come un tubo di vetro in cui scorrono delle palle variopinte. Nella vita di quasi tutti la palla è una sola. Se è rossa, si dice che l’uomo è “cattivo”. Se è gialla si dice che è “ buono”, se due palle – una rossa e una gialla – si susseguono abbiamo un carattere “ instabile”. Noi “morsi dalla serpe” viviamo nella nostra vita quel che di solito accade a tutta la razza di un evo intero: le palle variopinte attraversano il tubo di vetro in corsa folle, una dietro l’altra, e, finite che siano - noi siamo divenuti profeti – immagini delle divinità!».
E aggiunge:
«Quando agii, non avevo scelta possibile. E se avessi resistito, avrei creato una causa. Quando commisi il delitto, non creai cause. Si attuò invece liberamente l’effetto di una causa su cui non avevo alcun potere. Lo Spirito, che formò in me l’assassinio, ha eseguito su di me una condanna a morte; gli uomini, consegnandomi al boia, fanno si che il mio destino si disgiunga dal loro: - io acquisto la mia liberazione».
Meyrink aggiunse che questa è «la via della morte» di coloro che «hanno accettato i grani rossi, simbolo dei poteri magici»; parla anche della possibilità di non accertarli e infine, di una terza possibilità, di farli cadere in terra: cioè di rimandarli nel corso delle generazioni come poteri latenti, finché germoglino.
Riflettendoci, ciò non dice però nulla di decisivo. Il problema resta per chi non accetti la «via della morte», non accetti però nemmeno quella dei mistici e, conformemente alla promessa della magia, tenda ad un potere puro. In questo caso bisognerebbe sapere dunque se la legge di reazione è una fatalità irremovibile, tanto che dal liberarsi, dall’ascendersi e dall’integrarsi degli uni sulla via magica consegua il sacrificio di altri(1);
(1)A questo proposito, una frase di Svâmi Vivekânanda mi ha colpito: «La donna di strada ed il ladro della prigione sono Cristo che è stato sacrificato affinché voi possiate essere persone da bene. Tale è la legge dell’equilibrio. Tutti i ladri e gli assassini, tutti gli ingiusti, e gli esseri più deboli, i più cattivi, i più malvagi, sono tutti miei Cristi. Io professo un culto per i Cristi–dèi e i Cristi-dèmoni».
ovvero se questa stessa legge può essere rimossa.
Il problema che volevo proporre è questo. Mi sembra uno dei massimi problemi, negli studi che ci interessano. E sarebbe assai desiderabile che esso venisse ripreso da chi fosse capace di approfondirlo sulla base dei più vasti orizzonti da lui raggiunti.
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