AGARDA - APPUNTI SULL’AZIONE NELLE PASSIONI
La psiche umana la si può paragonare a un corpo, di cui solo alcune parti sono capaci di movimento attivo, di elasticità, di agilità. In tutte le parti restanti, essa si comporta come un corpo rigido che ad ogni urto è deformato, contuso o fratturato, appunto per essere incapace di una reazione elastica. Tipicamente, tutto ciò che nell’anima umana è sentimento, emozione e passione, è da paragonarsi appunto alla deformazione e alla frattura che subiscono le sostanze rigide quando sono colpite, per non avere una elasticità che le riporti alla loro forma primitiva.
Molto potrebbe dirsi a questo proposito; molti compiti potrebbero essere additati a chi si propone l’integrazione iniziatica del proprio essere; molti temi di riflessione potrebbero esser proposti a quelli che credono di essere attivi rispetto ad uomini o cose, ma internamente sono passivi.
Si dovrebbe giungere alla capacità di far corrispondere ad ogni passione od emozione un atto vero e proprio, che investa lo stato psichico e, per così dire, se lo ponga dall’interno, prima che lo scuotimento o il perturbamento di dolore o piacere, attrazione o repulsione istintiva ci occupi e s’imponga.
Per dirlo con una parola sola, bisogna imparare il segreto di volere le passioni e le emozioni – cosa che, come è chiaro, è l’opposto del metter la propria volontà al servizio di queste. Invece di lasciarsi prendere dalla passione, si tratta di prenderla, affermarvisi, e ciò, come si è detto, prima che essa abbia avuto il tempo di pervaderci: come chi sapesse cogliere a mezz’aria un proiettile lanciatogli contro per ferirlo, e che allora non lo ferisce più.
Se c’è un modo per far perdere ad una passione il suo potere – è precisamente questo. Ma bisogna avere buon polso, perché il giuoco è sottile. Una passione voluta, non è più passione: questo è chiaro. Nella misura in cui è possibile dire: voglio, posso anche dire: Non voglio. Ma come dire dell’intrepidezza che occorre perché non vi siano residui? Perché l’occhio sia pronto e rapida la mano, ad arrestare colui che, in noi, barasse?
Portiamoci nel campo nostro. E’ tutt’altro che escluso che per questa via si incontri qualche esperienza occulta punto disprezzabile, anzi non scevra, come ogni esperienza occulta rispettabile, di un certo pericolo.
Quando vuoi una passione – è chiaro – tu stabilisci un rapporto, perché, se la cosa è vera, tu riproduci dall’interno l’atto chiuso dentro alla passione, e non tuo, e ti ci trasformi. In tal modo, puoi anche sboccare in qualcuno e, lo sai, in certe situazioni la « neutralità » non è possibile. Se non sei tu ad entrare ed a stabilire l’« ascendente », è l’ altro che entra in te; per il qual caso, puoi rivedere quanto altri ha già accennato, circa i « patti ».
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Si dice, inoltre, « mio », in egual modo, sia di un pensiero, sia di una immagine, sia di una emozione. Pure, accorgersi di quale differenza vi sia, quando il punto di riferimento sia l’attività, non è punto difficile.
Una nozione, una volta acquistata; una immagine, una volta definitasi nella mente – divengono un possesso virtuale. Posso ricordarle. Col ricordo le riproduco, le riattuo, le ripresento io stesso alla mente quando voglio. Ma ecco che con un sentimento o con una emozione ciò non mi è possibile, o possibile solo in scarso grado. Un sentimento o una emozione provata, non posso renderla di nuovo attuale quando voglio: al più, solo in via indiretta, ricordando circostanze, cause, ecc. – non come sentimento o emozione in sé stessa, e non mediante un atto diretto dello spirito ….
Siamo perciò di nuovo nel caso della sostanza rigida e anelastica, suscettibile solo della possibilità di impressioni (in senso letterale). Qui non vi è agilità: non esistono membra attive dell’Io. Ed ecco che bisognerebbe crearle: estendere il libero potere di ripresentazione, che ho per idee e immagini, allo stesso dominio degli stati affettivi puri.
« Montarsi » a freddo? Esattamente. Odio, amore, paura, voluttà, ansia – tutto ciò devo giungere a saperlo suscitare in me con un atto dello spirito, quando voglio. Né più, né meno: e nello stesso grado di quanto sono stati suscitati da oggetti, persone o condizioni determinate.
Questa, è un’altra delle cose, senza le quali non si va troppo in là, in magia. La purificazione ascetica è impassibilità: la sostanza che prima, come piombo, era suscettibile a deformarsi ad ogni urto, la si rende come diamante, che da nulla più è scalfito – o come acqua, che tu in nessun modo sapresti più afferrare. La purificazione magica è invece attiva, attività sicura di sé su tutti i fronti e su tutti i piani: agilizzando tutto, riempire tutto con atti, senza esclusioni, senza incertezze, senza limitazioni.
Le passioni, le sensazioni, le si affrontino, si strappi loro la forza, invadendo là dove si muovevano per invaderci, trasformando il loro atto in nostro atto, e facendone, per così dire, tanti arti del nostro essere interno, che liberamente puoi muovere, far passar dalla virtualità all’attualità e dall’attualità alla virtualità – quando vuoi.
Ogni passione, scrutata nel suo fondo, anche quando si lega a piacere, all’ ostato normale contiene sempre un elemento di sofferenza. Si dovrebbero perciò mettere in relazione questi appunti con quanto è stato scritto sia circa la metafisica del dolore sia, anche, circa i rapporti fra sentimento e realizzazione. Da queste convergenze, ognuno potrebbe trarre spunto per considerazione interessanti.
Mettiamo: il tramonto. Chi non conosce tutto lo stucchevole e il convenzionale che si riferisce all’effetto del tramonto sull’anima? Ma anche levando questo, resta pur sempre uno stato di nostalgia, di accoratezza, di grandezza che strugge e che tormenta – e tu vorresti scioglierti, giungere a qualche cosa che non sai e che non riesci a dire. Tutto finisce qui, quando non vi si aggiungono le immaginazioni e le rielaborazioni liriche. Si tratta, dunque, di uno stato di passione. L’anima vi soggiace; il pathos la ferma e non le rende possibile di avvicinare il mistero che vi si cela.
Come sofferenza, quello stato in termini di realtà esprime il manifestarsi di una sensazione trascendente, a cui però la coscienza non sa aprirsi, onde si trasmuta in un ingorgo, in una scarica in eccesso, che dà luogo allo stato affettivo come tale. La passione del tramonto, in particolare, non è che l’arresto dell’impulso ad aprirsi in quella luce, che fiorisce quando la luce esteriore declina e muore, sì che per gli occhi del corpo cominciano a scendere le tenebre. E’ un istinto, per l’essere finito aggrappato tenacemente e trepidamente alla propria egoità, reagire contro simile impulso e simile invito che gli viene dalla sera, quando per avventura si abbandoni un po’ allo spettacolo delle cose: con la sua reazione esso si chiude, e l’impulso sottile sfocia in « sublimati » della sensibilità animale, i quali danno luogo appunto a quella costellazione di emozioni vaghe, e pur profonde, che costituiscono il pathos del tramonto.
Va senza dire che nemmeno a questo phatos l’uomo moderno, ottuso e sordo, « ha tempo » di prestar attenzione. Aboliti i punti di transito, il potere di « separazione » lo sorprenderà nella notte come un assassino, atterrandolo col sonno, fra gli spettri delle luci artificiali. Al « sole di mezzanotte » corrisponderà, in lui la più letea incoscienza.
Per gli altri questa può essere una indicazione – e un compito per l’attività nella passione. – Sapere, è già preparazione pel comprendere; e la comprensione a sua volta, preforma ermeticamente la realizzazione: per quello di cui ora si è detto, come per il resto.
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A proposito di quanto ha scritto « Abraxa » circa la possibilità, che ha la guerra di provocare stati d’animo che, assunti attivamente, hanno valore di vie, voglio citare alcune osservazioni di guerra fatte da Arturo Marpicati, molto caratteristiche a questo riguardo:
« Se le facoltà individuali intorpidiscono nella monotona trincea, e il campo della coscienza si riduce ad un cerchio minimo, durante il bombardamento il fenomeno più generale nella massa è addirittura d’arresto nel lavorio mentale. Si sta lì; si accompagna con tutto il nostro essere il sibilo e lo schianto dei proiettili; ma non si pensa a nulla; l’orologio del cervello è fermo. Anzi è capitato anche a me di sorprendermi come sdoppiato; io non ero più presente a me stesso con la coscienza; ne avevo un’altra; mi pareva di non esistere e di vedermi non esistere: avevo la sensazione strana di essermi staccato - « io-spirito» - dall’« io-corpo », e di disinteressarmi di lui. Quando la furia delle artiglierie culmina nel parossismo del tambureggiamento non c’è più nulla che interessa: né gli affetti lontani, né gli amici vicini, né la vita né la morte. Morti anzi ci si sente di già … il deserto ci si è fatto d’intorno il senso della fatalità ha influito e regna su tutti gli organi. Occorre qualche tempo perché, cessato il bombardamento, i nervi scossi tornino a posto e le facoltà riprendano i loro esercizi normali: ciò che ha molti organismi, purtroppo, non avverrà più ».
Ogni studioso delle nostre scienze riconosce gli stati di cui si tratta: mortificazione, sospensione, separazione. Ma qui, semplicemente subiti e incipienti. Spiragli verso realizzazioni trascendenti si schiuderebbero se in quei momenti avvenisse l’azione dall’interno.
Si ricordi, invece, a questo proposito, ciò che riferendosi parimenti ad una esperienza di guerra ha scritto « Iagla ». Sembra che perfino nelle guerre moderne certe possibilità, che già fecero da base al « rito » delle tradizioni eroiche, non siano del tutto scomparse.