SIMBOLI DEL CUORE DI CRISTO
PRESENTAZIONE
Ho
trovato davvero straordinario questo articolo sulla
concezione che avevano i primi egiziani del cuore umano e del Cuore di Dio e
desidero condividerlo con tutti i fratelli ed i lettori del sito della Scuola
Ermetica “Salvatore Mergé”.
L’autore,
francese di nascita, Louis Charbonneau-Lassay, è stato, per quello che a noi
qui più interessa, un esperto incisore ed un attento “filologo dei simboli”; la
sua opera costituisce per noi una rarissima testimonianza della concordanza,
caduta poi in seguito nel dimenticatoio, per la mancanza di una continuità di
rappresentanza reale e non solo apparente dei vertici in verità di entrambe le
parti in causa, tra ermetismo e dottrina cattolica romana.
René
era il nome che l’autore prese entrando come novizio nella congregazione dei
Fratelli di San Gabriele e di cui fece parte fino al suo scioglimento nel 1903.
L’autore
ci conduce per mano nella rappresentazione che gli antichi egizi si
tramandavano del cuore umano inteso come una realtà a se stante, diremmo
volentieri come Uomo interiore, sede privilegiata delle facoltà intellettuali e
non solo delle passioni.
Il
sacerdote egizio contemplava nel suo cuore la Legge della Unità della
Creazione, il Cuore eterno palpitante dell’unico Dio.
Questo
ci fa riflettere, non poco, sul valore non solo sentimentale o devozionale che
in principio doveva avere il culto cattolico del Sacro Cuore del Cristo.
Per
gli egizi, popolo di religiosi e non di creduloni come qualcuno oggi ci
vorrebbe far credere, il cuore umano, aveva come simbolo geroglifico il Vaso ed
era ritenuto il crogiuolo nel quale la volontà umana individuata assisteva al
nascere delle passioni terrene, governandole per il proprio bene; ed è per
questo che essi credevano che dipendesse dalla sua testimonianza, del cuore
appunto, resa dopo la morte fisica dal suo peso, la conservazione o la
distruzione dell’anima individuale nel giudizio.“Tribuat tibi secundum cor
tuum”.
Antimonio
Un
fratello di Hermes
SIMBOLI DEL CUORE DI CRISTO
di Rene’ Louis Charbonneau-Lassay
Ed. Arkeios Roma 2003 pag..15-25
Il cuore umano e la nozione di Cuore di Dio nell’antico Egitto
Per un numero ancora troppo elevato di
cattolici, la pietà verso il Cuore Divino è una concezione tarda, nata nel
secolo XVIII dalla spiritualità sentimentale diffusa dai gesuiti e da altri
predicatori. Per altri — fra quelli che si sentono obbligati a riconoscere che
la fede del Medio Evo, soprattutto, ha onorato e adorato come noi il Cuore
redentore — questa è una idea germogliata nello spirito così devoto di quella
società medievale tutta impregnata di tenera poesia, ma al tempo stesso di un
realismo sorprendente. Si potrebbe quasi arrivare a dire che il culto del
Cuore, centro di tutto l’amore salvifico, deriva dalle «Corti d'Amore» e dalle
meditazioni infiammate delle monache.
In ogni caso, viene ammesso, quasi come
scienza certa, che l'animo cristiano del primo millennio non ha avuto né ha
potuto avere nemmeno l'ombra di un pensiero per il Cuore di carne di Gesù,
fulcro dei suoi sentimenti affettivi, e che questa concezione si colloca
totalmente al di fuori del suo ambito.
A maggior ragione, sembrerà loro
assolutamente stupefacente che l'intera casta sacerdotale di un popolo pagano
tra le prime civiltà umane abbia avuto per il Cuore del Dio unico — superiore
ai suoi dei, per quanto potesse concepirlo — una idea, una attenzione così
particolari, da fare attribuire al Cuore tutto ciò che la Divinità stessa
possiede di perfezione: potenza creatrice, scienza, bellezza, bontà e giustizia
infinite, e che questa idea, questo Sacerdozio abbia coinvolto tutta la nazione
con i suoi superbi sovrani, i suoi artisti, i suoi studiosi ed i suoi
architetti incredibili.
Tuttavia, le scoperte fatte soprattutto
negli ultimi vent’anni dall’egittologia, permettono di affermare, su una base
di documenti materiali positivi (scritti, iscrizioni lapidarie, sculture,
oggetti d’arte, ecc.), cose la cui mirabile testimonianza è indiscutibile.
Sin dal tempo delle prime dinastie
storiche, dal 3300 al 2600 a.C., l’Egitto ci si mostra attraverso i monumenti
come una nazione estremamente civilizzata; le statue e le sculture che abbiamo
di quel tempo sono di un’arte la cui perfezione ci confonde, e quando i Faraoni
della quarta dinastia, Cheope, Chefren e Micerino, elevarono o permisero ai
Sacerdoti di elevare quei misteriosi santuari che sono le Grandi Piramidi di
Giza fra il 2840 e il 2680 prima della nostra era, la scienza degli egizi nei
campi dell'astronomia, cosmogonia, geometria e geodesia era tale che ci sono
voluti i nostri attuali strumenti di precisione per eguagliarla; e i loro
metodi matematici nel campo delle suddette scienze hanno permesso loro di
risolvere calcoli tali da lasciare stupefatti i nostri scienziati.
Ora, prima ancora di quell’epoca, quando i
pontefici di Men? e di Tebe erano i custodi della scienza e della religione in
Egitto, vi si conservava anche il culto del vero Dio — a onor del vero
alterato, ma espressamente indicato per esempio dai geroglifici dei monumenti
della terza e quarta dinastia — il Dio Uno, Unico. Entità spirituale, appariva
come completamente diverso dagli dèi, che non furono altro che totem, o dagli
antenati divinizzati, a cominciare da Atum (l'Antenato); uno dei suoi ?gli,
Osiride, divenne uno dei ministri della Divinità unica incaricato specialmente
di presiedere alla pesa delle anime sulla soglia del «regno delle
trasformazioni».
Quanto al Dio unico di cui parla il pagano
egizio che in quel tempo scrisse il papiro del British Museum, leggiamo la
seguente espressione: «Dio grande, Signore del cielo e della terra, che hai
fatto tutte le cose esistenti. O mio Dio, mio Maestro, che mi hai fatto e
formato, dammi un occhio per vedere, un orecchio per udire le tue glorie!»,
preghiera che ritroviamo simile nei Classici di Roma e dell’antica Grecia.
Ciò che spicca fin dal primo contatto che
si ha con le opere specialistiche che trattano delle ultime scoperte religiose
dell’egittologia è che il popolo egizio custodì a lungo la nozione di verità
primarie e che, d'altra parte, sebbene non fosse «la nazione in cui tutte le
nazioni sono state benedette», in tale popolo, e soprattutto nella sua casta
sacerdotale e nella sua élite intellettuale, vi dovettero essere animi molto
nobili, spiritualmente molto puri, che Dio favorì di illuminazioni e intuizioni
meravigliose. Non dobbiamo stupirci: il Melchise- dech di cui parla il Genesi e
i tre Magi dei Vangeli non erano affatto ebrei, eppure il primo prefigurò
l'eucaristia e i secondi scoprirono Cristo appena nato: «Lo spirito di Dio
soffia dove vuole».
E per questo che troviamo nei testi sacri
dell'Egitto dei brani davanti cui grandi studiosi di oggi come Alexandre Moret,
professore al Collegio di Francia e Direttore della Ecole Pratique des Hautes
Etudes, non esitano a vedere una sorta di «precristianesimo»; così Moret, nel
suo magnifico studio Mystères Egyptiens titola arditamente uno dei suoi più bei
capitoli « Le Mystère du Verbe Créateur».
Sono i resti di queste antiche credenze
dei bei tempi dello splendore egizio che, raccolti nei Libri Ermetici,
stupivano a tale punto i nostri primi dottori cristiani che uno di loro,
Lattanzio (T 325), diceva: «Ermete ha scoperto, non so come, tutta la verità».
Vediamo ora, stando ai documenti più
antichi, quale posto sorprendente viene dato al cuore umano nella concezione
della psicologia religiosa che non era ancora stata penetrata, se non di poco,
dal politeismo e dalla zoolatria degli ultimi secoli della decadenza egizia.Nei
gerogli?ci, scrittura sacra o spesso immagine della cosa che rappresenta la
parola stessa che indica, il cuore non fu tuttavia raffigurato che da un
emblema: il vaso. Il cuore dell’uomo non è in effetti il vaso in cui la vita
viene rigenerata continuamente dal suo sangue? Il vaso in cui nascono, si
sviluppano e muoiono le passioni buone o cattive che presiedono alla sua
volontà e che talvolta la dominano, al punto da tiranneggiarla a loro
piacimento.Alla nascita del genere umano, come racconta a suo modo la piramide
del Faraone Pepi II, Atum, il primo uomo genera i suoi figli suddividendo il
suo cuore in nove parti, e ciascuna di esse diviene un essere umano completo;
così nacquero gli antichi dei e dee Turn, Shu, Tefnut, Keb, Nut, Osiride,
Iside, Seth e Nefti. Questo per far comprendere che l'uomo trasmette la vita
per mezzo del suo cuore, come vedremo più avanti il Verbo di Dio creare la vita
con il suo Cuore.
Fig. 1. Il vaso,
emblema geroglifico della parola «cuore».
Dal cuore proviene tutto ciò che l’uomo sa
e può fare; è ad esso che l'attività umana chiede la sua ispirazione; è quello
che ci rivela quel Faraone prestigioso del secolo XV a.C., Tutankhamon, che ci
è stato restituito nello stupefacente splendore dei suoi tesori funerari. Il
testo che ci parla di lui, sulla stele, assicura testualmente che «meditava
profondamente sulla felicita‘ del popolo comunicando con il suo cuore».
E quando Ramses II rimprovera ai suoi
ufficiali di essere stato male assistito nel corso di una battaglia, dice loro:
«Non vi porto più nel mio cuore»; poi, rivolgendosi verso suo padre che è in
cielo, il Dio Ammone, osa parlargli così: «Che fai tu dunque, padre Ammone? Non
è compito di un padre vegliare sul proprio figlio [...]. E cosa sono per il tuo
Cuore questi asiatici ?» °.
E dunque proprio del Cuore di Dio, del Dio
Ammone (1), che si tratta, ma soltanto, e ciò è molto chiaro, del Cuore
metaforico di Dio in quanto centro degli affetti divini; forse che alcuni dei
nostri testi di liturgia cattolica non lo supplicano con accenti talvolta
simili?
Oh! Il cuore umano, quanto lo ha amato
l’Egitto idealista! Si legga la favola poetica di Bitau, anch’esso
sacrificatosi, ma il cui cuore non vuole morire e si trasforma ogni volta che
un nuovo colpo, di per se stesso mortale, lo colpisce; fino a quando Anubi
rianima Bitau ritrovando il suo cuore errante e mettendolo nell'acqua. E Bitau
ritorna in vita con il suo cuore.
Ma è soprattutto nel giudizio delle anime,
nella dipartita dalla vita terrena, che il cuore appare come il riassunto
completo dell'uomo. Questa pesatura degli atti delittuosi di ogni umana
esistenza è espressa dalle scene scolpite sui monumenti dell’antico Egitto,
tutto sommato abbastanza simili a quelle che ci mostrano sulle nostre chiese
romaniche e gotiche il giudizio particolare delle azioni della nostra vita, con
san Michele che pesa delle anime minuscole in presenza dell’angelo custode che
ci protegge e di Satana nostro accusatore.
Fig. 2. Libro dei
morti. Papiro. Museo egizio di Torino.
Cosa ci mostra la scultura egizia? Davanti
al trono di Osiride, incaricato del giudizio dei Morti e circondato dai suoi
consiglieri, si erge una bilancia vicino a Maat, personificazione divina della
Verità; a fianco o sopra di essa, un mostro ibrido, il Divoratore, giustiziere
della divinità, è pronto a impadronirsi dell'anima se la giusta pesatura
andasse a sfavore di questa.
Su uno dei piatti sta solo il cuore del
defunto, con le sembianze del vaso gerogli?co in cui stanno le opere malvagie
della vita che sta per essere giudicata. Allora Maat—Verità avanza, stacca
dalla sua acconciatura la piuma bianca di struzzo che la caratterizza, talvolta
si siede lei stessa sul piatto, però, siccome è sostanza spirituale, l'unica
cosa che pesa e‘ la piuma bianca... E se l’equilibrio perfetto non viene a
crearsi subito fra il vaso-cuore e la piuma immacolata, è il mostro giustiziere
che trionfa, e l’anima non verra‘ ricevuta nel regno delle trasformazioni
felici.
Vedete: sulla pietra della sua tomba c’e‘
Ramses VI che la bella dea-antenata Iside, figlia di Atum, conduce per mano
davanti al tribunale terribile di suo fratello Osiride con i suoi consiglieri,
davanti alla incorruttibile Maat-Verità; il Faraone recita il suo «mea non
culpa», poiché solo il male commesso entra in gioco.
E Ramses comincia:
Omaggio a Te, Dio grande che possiedi la
certezza! lo vengo a te, o mio Signore, mi presento al tuo cospetto per
contemplare la tua gloria. Io ti conosco, conosco il tuo Nome e conosco il nome
delle quarantadue divinità che sono con te nella sala della Verità. Non ho
messo l’iniquità al posto della dirittura. Non ho fatto quello che gli dei
detestano. Non ho ucciso ne' fatto uccidere perfidamente. Non ho tradito
nessuno. Non ho fatto versare le lacrime dei poveri, ecc.
Quarantatré capi d’accusa sono così
rigettati dal Faraone che conclude gridando:
Sono puro, sono puro, sono puro!
E mentre la Verità lo guarda e si appresta
a lasciar cadere nel piatto della bilancia la sua piuma terribilmente leggera,
lo scarabeo di pietra preziosa, che occupa nella mummia regale il centro del
cuore, ripete per invocazione la frase magica che fu detta su di lui quando fu
consacrato dagli ieroduh':
O cuore, che eri il mio cuore sulla terra,
tu che provieni da mia madre e mi sei necessario per le mie trasformazioni, non
testimoniare contro di me, non opprimere tuo padre, o mio cuore!
Ma appena Maat—Verità ha lasciato cadere
la piuma del suo diadema, i due piatti della bilancia oscillano e si fermano al
punto preciso dell’equilibrio perfetto, Ramses è giustificato.
Sulla sua stele funeraria conservata al
Museo di Torino e tradotta da Chabas, Beka, prima di recitare come Ramses il
suo «mea non culpa», lo riassume in anticipo, con queste parole vincitrici: «lo
fui un uomo giusto, sincero e buono, che ha messo Dio nel suo cuore» ".
Dio — Beka dice proprio Dio — in geroglifico Nuter", e non uno degli dèi.
Beka comprendeva al meglio che non poteva essere condannato un cuore in cui
risiedeva Dio e che viveva di Lui, poiché lo possedeva al centro stesso della
sua vita!
Dopo di lui, e quasi nello stesso senso,
il Cantico dei Cantici farà dire all'anima: «Pone me ut signaculum super cor
tuum», «O Dio, mettimi come sigillo sul tuo cuore». Ben mille anni dopo
un’altra frase, ancora più espressiva, quella di san Paolo, le farà da eco:
«Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me».
Dunque, per l’Egitto religioso il cuore
era tutto l'uomo: la sede delle sue facolta‘ intellettuali, come anche delle
passioni che con esse governano la sua volontà, il vaso di vita dove l'anima,
abbandonando il corpo, lasciava il deposito delle azioni compiute con esso, il
tabernacolo infine dove il giusto portava la Divinità quando per mezzo delle
virtù aveva serbato Dio in lui, come Beka che se ne gloriava.
L'attenzione del pensiero egizio era
troppo rivolta al cuore umano e, oltre al suo ruolo fisico, gli attribuiva una
parte troppo importante perché essa non risalisse, forzatamente, verso il cuore
di quella Divinità unica che la casta sacerdotale di quel paese riconosceva
come posseditrice di onnipotenza e di ogni perfezione, fino al sommo grado della
totalità e dell'infinitezza.
Sono il Faraone Amenofi IV, detto Ekhnaton
— il cui magnifico e elegante busto si trova al Louvre — e la regina
Nefer—Neferiu—Aton, sua sposa, che composero insieme gli splendidi cantici che
monumenti vari ancora intatti ci hanno conservato. In uno di questi inni,
rivolto a Dio, al Dio-Aton, vale a dire considerato sotto l'emblema radioso del
disco solare, leggiamo a caso da un lungo testo frasi come queste:
Tu hai creato la Terra nel tuo Cuore,
quando eri tutto solo [...] hai fatto le stagioni dell'anno per far nascere e
crescere tutto ciò che hai creato […] hai fatto il Cielo lontano per levarti in
lui e vedi da lassù tutto ciò che hai creato, tu, tutto solo [...] Appari sotto
le sembianze di Aton vivente, ti levi radioso, ti allontani e ritorni; tu sei
nel mio cuore “°.
Quindi, stando all’inno di
Amenofi-Ekhnaton, è dal Cuore stesso di Dio che è partito il gesto divino della
grande azione creatrice: «Tu hai creato la Terra nel tuo Cuore».
La stessa assicurazione ci viene data
anche dall'iscrizione funebre di un sacerdote di Menfi il cui testo e senso
sono stati precisati da Breasted, Maspero ed Erman; ne deriva che i teologi
della Scuola di Men? distinguevano nell’opera del Dio Creatore il ruolo
dell’idea creatrice che essi chiamano la parte del Cuore, e quello dello
strumento della creazione, che essi chiamano la parte della Lingua. Dunque, in
Dio ogni Verbo è un concetto del Cuore, e per attuarsi ha bisogno della parola;
così si forma ogni atto divino nell'idea del Cuore, nell’emissione della
lingua.
Quindi, il Cuore di Dio viene visto dai
saggi dell'Egitto non soltanto come fulcro iniziale della potenza creatrice ma
anche come la sede del pensiero divino, ed è per suo mezzo che Dio possiede la
scienza infinita di tutte le cose. Sul papiro di Leida, a proposito di Dio
indicato con il nome di Ammone, si legge: «Il suo Cuore conosceva tutto, le sue
labbra gustavano tutto».
Un'altra Scuola teologica che ci fa
conoscere alcuni monumenti dell’epoca dei Ramessidi (XIX dinastia, circa 1250
a.C.) ci espone un’altra teoria teologica secondo la quale Dio — il Dio unico
(lett.: il Nome) la cui natura è tutta mistero — ci viene presentato composto
da tre entità divine che formano una autentica trinità—unita‘: Ptah, Horo e
Thot. Ptah è la persona suprema e rappresenta l’Intelligenza divina; Horo,
secondo una tradizione antica già all'epoca, ne è il Cuore; Thot è il Verbo,
strumento delle opere divine. E Ptah è quindi designato come l'Essere Supremo
perche' la triade intera procede in qualche modo da lui; questo seguendo lo
schema del precitato documento: «Colui che diventa Cuore, Colui che diventa
Lingua» ".
La seconda persona di questa trinità,
Horo, il Cuore divino, nell'emblematica sacra fu rappresentata sotto le
sembianze dello sparviero, del falco. Sin dai tempi della IV dinastia, cioè
circa tremila anni prima della nostra era, si trovava sulla bandiera sovrana
del Faraone Chefren la doppia corona degli Egizi del Nord e del Sud, e nella
formula geroglifica del suo nome appariva il Vaso-Cuore.
Il falco-re, il falco-dio fu il totem,
cioè il genio e il simbolo abituale dei Faraoni considerati sia come figli che
come emanazioni terrene della Divinità, come fu anche l'emblema di Horo, il
Cuore di Dio. Sulla bella statua dello stesso Chefren, lo sparviero sacro
poggia il suo cuore contro la nuca del Faraone che protegge, racchiudendo la
sua testa nelle ali spiegate.
Mi domando se questa posa non indichi
molto più di una semplice protezione... Essa è certamente espressiva, dato che
l'uccello divino copre con il suo cuore il cervelletto del sovrano nel punto
più sensibile, a livello del «ponte di Varolio», e che il suo corpo protegge
fasci di nervi cervicali che alcuni anatomisti chiamano «albero della vita».“
ma non vi sarà dell'altro?
Molte sono le sculture sacre d’Egitto che
ci mostrano dei sacerdoti, degli oranti o altri operatori che fanno imposizioni
magnetiche su un soggetto; a volte una intera assemblea le indirizza verso un
personaggio altolocato, per esempio un Faraone che nasce, e un testo uf?ciale
ci dice della Faraona regnante Hatshepsut che « gli dèi lanciano costantemente
i loro ?uidi di vita su di lei ogni giorno» “.
Fig. 3. Statua di
Chefren, Museo del Cairo.
Non potrebbe trattarsi, nel contatto così
suggestivo che li unisce, di una sorta di comunicazione, di trasmissione di
questa natura, di una maniera di comunicazione mediante emanazione e
assorbimento dei caldi fluidi divini fra il cuore dell'Uccello-dio e il
cervello del Faraone Chefren?…
Circa mille anni dopo di lui, quando sul
suo trono, il più grande dei troni, lo sfarzoso Tutankhamon risiedeva in tutto
lo splendore della sua magnificenza, anche le sue braccia riposavano così,
nude, fra le ali spiegate del grande sparviero di lapislazzuli... E presso gli
Egizi come presso gli Ebrei, era alle braccia che si riferiva l'idea della
potenza, dell'autorità.
Non voglio affatto esagerare, ne’ essere
così sistematico al punto di affermare che la teologia talvolta così strana
dell’antico Egitto abbia contenuto, se così si può dire, una preistoria del
nostro culto cattolico al Cuore divino: certo no; ma ho ritenuto che fosse cosa
buona per lo meno esporre in questa sede quale grande parte ha avuto nel suo
pensiero, e quale posto e quale ruolo ha saputo riconoscere al Cuore del Dio
onnipotente, onnisciente e buono, la religione di questo popolo pagano;
religione grossolana e materialista per certi versi, quasi spoglia di
ascetismo, ma così elevata per certi dogmi e così eloquentemente espressiva per
le sue formule di adorazione e di preghiera.
Oso pensare che, se i nostri santi dottori
dei secoli medievali avessero conosciuto i dati che le scoperte di questi
ultimi tempi hanno rivelato sulle idee e le cose dell’antico Egitto, con tutta
probabilità oggi ne troveremmo delle tracce nella patristica del Sacro Cuore, e
forse addirittura nella liturgia: il rituale romano ammette proprio nell’ufficio
dei Morti la testimonianza degli oracoli sibillini in accordo con quelli del re
profeta: «Teste David cum Sibylla».
Sicuramente non è da mettere in parallelo
il Cuore fisico di Gesù che fu adorato in primo luogo come la principale delle
ferite redentrici e come fonte corporea del Sangue salvifico, con il Cuore
puramente metaforico al quale gli egizi guardavano come fonte di bellezza?
delle perfezioni divine; ma resta il fatto che il cuore, fosse quello di Dio o
quello umano, metaforico o corporeo, essi lo rappresentavano separatamente dal
resto della forma umana, con un comune emblema consacrato, il vaso gerogli?co,
dal simbolismo assai parlante. Nessun altro popolo antico attraverso il Cuore
guardò la Divinità, nessuno mai le si rivolse scongiurandola di avere pietà di
lui, come scongiurava il proprio cuore di non testimoniargli contro nell’ora
suprema.
Proprio i testi gerogli?ci ci lasciano
intendere che tale attenzione dell’anima egizia verso i Cuori di Dio e
dell’uomo non corrispondeva per nulla a uno stato spirituale particolarmente
sentimentale. Per quello che ci interessa, l'elite religiosa dell’Egitto, per
quanto deviata sia stata nella teologia generale, ci appare troppo scientifica,
troppo speculativa, per essersi lasciata tentare più dalla dolcezza del
sentimento che da ri?essioni serie e ragionate.
Note
Signore di ciò che è, permanente in tutte
le cose,
Unico in sua natura come il Seme degli dei
[…] capo di tutti gli dei.[…]
La tua dolcezza è nel cielo
settentrionale,
la tua bellezza rapisce i cuori, l'amore
di te fa languide le braccia,
la tua forma bella rende deboli le mani, e
i cuori, alla tua vista, ogni cosa dimenticano.
Tu sei l'unico che fece tutto ciò che è.»
(Inno ad Amon-Ra, Papiro Boulaq)
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