IL CIELO E GLI ASTRI - PRIMA PARTE
Dalle affermazioni che premette all’inizio
del libro Il cielo, Aristotele deduce
alquanto puerilmente che il mondo è perfetto: anzi, tutti i Peripatetici non
avranno uno strumento per dimostrare la perfezione del mondo. Ivi l’argomento
principale di Aristotele è che, essendovi evidente che tra le specie di
grandezza il corpo è quella perfetta, apparirà anche chiaro che l’universo, in
quanto corpo, è perfetto, perché attraverso le parti discrete, nessuna delle
quali esclude, è ogni cosa; attraverso le parti continue, di cui consiste, è il
tutto; per la sua forma, infine, è perfetto; parimenti, in quanto universo, si
dice perfetto.
Come il corpo, infatti, in tanto è la grandezza perfetta, in quanto non
passa in una grandezza di altro genere, così l’universo è perfetto nel genere
delle cose, perché non è limitato da qualcos’altro che sia fuori di esso, dal
momento che fuori dall’universo non vi è nulla; altrimenti non sarebbe
perfetto. A questo punto occorreva aggiungere che fuori dall’universo non c’è
qualcosa che gli appartenga o che lo riguardi, perché è opportuno che sia
infinito e immortale ciò che gode di una vita eterna.
Ma (dio buono!), se intanto è ritenuto perfetto in quanto nulla è al di
là di esso, per la stessa ragione tutti gli individui sono perfetti: infatti,
come questi sono limitati da altri diversi individui, così anche il mondo è
limitato da un altro diverso mondo (che è intelligibile). Né va incontro a
questa tesi che l’universo è perfettissimo nel genere dei corpi, perché al di
fuori di esso non vi è corpo: da ciò infatti non deriva nulla in favore
dell’argomento in questione, se non un circolo vizioso e una petizione di
principio.
Noi concepiamo, infatti, al di fuori di
questo finito immaginato da Aristotele, uno spazio infinito e astri o mondi
infiniti. E se in tal modo l’universo di Aristotele può ancora considerarsi
perfetto, rimane pure intatta e irrisolta la difficoltà della sua perfezione:
l’universo, in quanto infinito, per questa ragione sarà anche perfetto, perché
al di fuori di esso non v’è qualcosa in cui possa fluire o da cui possa essere
limitato; dunque questa definizione di perfetto rimane palesemente vana e la
considerazione della perfezione dell’universo, secondo un ragionamento che non
determina né discerne se esso sia finito o infinito, si affanna su un equivoco,
in quanto si basa su valutazioni di genere diverso.
A noi consta che gli astri sono sferici e che nessuno tra i corpi sferici è o può essere semplice.
È necessario infatti che il corpo solido e
sensibile consista di più elementi, perché nessun elemento (per conseguire la
vera natura di elemento) può essere sensibile. Inoltre mostreremo che questa
sfericità propria degli astri non è geometricamente esatta o rispondente a
regole matematiche, ma tiene conto delle differenze inerenti i corpi fisici.
Animato da un’opinione quanto superficiale Aristotele sostiene che il cielo si muove come noi ci muoviamo, allorquando dalla differenza delle tre grandezze o dimensioni deduce le differenze dei suoi tre movimenti! Noi infatti non concepiamo nessun “alto” o “basso”, se non relativi, né avremmo mai potuto dire che il principio da cui ha origine il moto è la natura del destro, perché ciò che è destro rispetto a una posizione è percepito, rispetto a un’altra, come una diversa specie di luogo, quali sinistro, prima, sopra. Per non dire che, poiché infiniti sono i corpi dei mondi e infinita la dimensione dell’universo, non potrà darsi né il basso, né il centro, né l’alto. Nel corpo rotondo infatti, come immaginiamo che sia il cielo, le sei differenze coincidono, perché nella sfera altezza, larghezza e lunghezza sono la stessa cosa e il movimento, che da coloro che abitano all’equatore è detto secondo l’alto e il basso, dagli abitanti del polo è detto secondo la larghezza: per alcuni verso destra, per altri verso sinistra. Viceversa, il medesimo movimento che va verso i poli e da essi recede, il quale per gli equatoriali si dà secondo la larghezza verso destra e verso sinistra, per gli abitanti del polo si darà secondo le differenze dell’altezza, ossia alto e basso. Ugualmente, non c’è ragione per affermare che uno dei poli sia su e l’altro giù, se non relativamente ai diversi abitanti. Quanto al fatto che il Peripatetico dica, invece, che la distinzione della parte superiore, dove il movimento del cielo è più nobile, è una distinzione reale, per cui il polo antartico deve chiamarsi superiore in quanto contiene le stelle più nobili e di più nobile influenza rispetto all’artico: egli stesso, dimentico di queste sciocchezza, non vi fa più riferimento quando la parte più nobile del cielo risulta per lui nello Zodiaco, e neppure è convinto di queste parole con le quali quelle stelle sono paragonate a queste. Per noi inoltre, che riteniamo che gli stessi astri sono contenuti nell’aria, la quale abbraccia uno spazio infinito, e che per questo concepiamo tanto la terra quanto gli altri astri contenuti e fissati nel cielo allo stesso modo, svanisce ogni questione sulle differenze di luogo del cielo.
Nessun movimento, di ciò che si muove naturalmente, è per me naturale, eccetto quello circolare, che Aristotele chiama “intorno al centro”. Inoltre, noi non ammettiamo un unico movimento intorno al centro, ma certamente di più di quanti sono gli astri, poiché la terra si muove in diversi modi intorno al proprio centro, e non in un solo modo intorno al sole, come diffusamente abbiamo dimostrato altrove.
Il movimento intorno al centro, inoltre,
si dà in una duplice modalità sulla scena dall’universo: una propria degli
astri acquei, o terre, intorno agli astri ignei, o solidi; l’altra propria
delle parti di ciascun astro intorno al centro del tutto (e infatti la luna non
si muove per sé intorno alla terra, mentre percorre le differenti distanze e i
diversi rapporti rispetto al sole), con l’effetto però che, come in questa
terra, le parti si muovono non meno intorno al centro che dal centro e verso il
centro, lungo tutte le diverse dimensioni della terra. La rotazione in questo
caso è compiuta, infatti, non in conformità alla norma geometrica, ma alla
fisica, come abbiamo altrove più volte spiegato.
Intorno al centro della terra non c’è altro movimento che quello delle sue parti, le quali non si muovono in maggior misura intorno al centro, che dal centro e verso il centro, lungo tutte le diverse dimensioni: ciò che vale anche per le acque che sono membra del tutto. Per chi considera rettamente, infatti, non diversamente i fiumi si muoveranno intorno al centro, in quanto il movimento che compiono sulla superficie convessa della terra è assolutamente circonferenziale e niente affatto rettilineo.
I filosofi Peripatetici non possono verificare negli enti naturali nessun moto semplice e neppure il pedissequo corteo degli astronomi loro seguaci, perché da nessuna parte la natura presenta un circolo geometrico, come abbiamo accennato sopra e dimostreremo più ampiamente in altre occasioni.
Cosa si può sostenere di più assurdo dell’affermazione che i corpi composti si muovono secondo la sostanza corporea in essi predominante, se i metalli, la cui sostanza, secondo l’insegnamento di Aristotele, è l’acqua, vanno affondo nell’acqua? E se lo stesso Aristotele afferma che vi sono alcuni composti che hanno un movimento composto?
Non vediamo nessuna sfera muoversi di moto rettilineo, perché senza dubbio nessuna è pesante o leggera. Invano dunque il principe dei Peripatetici compara i corpi superiori agli inferiori in base al movimento. Diciamo e comprendiamo meglio, allora, che tutti i corpi, quando si muovono nel proprio luogo, si muovono circolarmente, mentre le parti di tutti i corpi, situate fuori dal proprio luogo (qualora ci sia un accesso) si dirigeranno in linea retta verso di esso, ovunque sarà. Perciò tutti i moti naturali e le specie dei moti naturali sono circolari o cercano e imitano il movimento circolare. Nessuna parte dei corpi, dunque, potresti definire pesantissima che non si possa anche definire leggerissima e, ugualmente, a metà tra pesante e leggere, e talora né pesante né leggera, dal momento che tutte le parti si muovono secondo tutte le diverse dimensioni della sfera.
Aristotele, invece, sostiene, assai
infelicemente, che il tutto va dove va la parte; infatti, in nessun modo è
possibile che la terra vada dove va la zolla, sia che questa si diriga verso
l’alto sia verso il basso, ma è necessario che la zolla vada naturalmente verso
il luogo verso il quale si dirige la terra.
Gli altri astri, se esamineremo più a fondo la questione, non appariranno più ingenerabili, incorruttibili, inaccessibili e inalterabili di questa terra. Da ciò non segue che eliminiamo i corpi divini e che eliminiamo il luogo e la sede degli dei e delle anime beate, perché chi potrà mai assegnare a sostanze incorporee, in quanto tali, se di corporee quale loro dimora? Perché, allora, non alziamo gli occhi a un altro genere di cielo in cui si dice che le intelligenze godono di un’esistenza eterna? Aggiungi poi che, a causa di quella distribuzione dei corpi naturali (di cui si tratterà più avanti), così come Anassagora non fa un uso corretto del nome di etere, e designare il fuoco, come se tutti gli astri fossero ignei (a meno che Aristotele non travisi la sua opinione, come è solito fare con tutti), neanche il Peripatetico intese correttamente per etere non “l’astro che corre”, ma l’orbita deferente.
Da nessuna parte Aristotele prova che il mondo è di quantità finita, ne chiunque altro potrà mai dimostrarlo, a meno che non usi il termine “mondo” con quel significato con cui lo intendiamo noi, per cui mondo e astro sono la stessa cosa. Definiamo dunque l’universo sostanza infinita, mole infinita in uno spazio infinito, ossia nel vuoto-pieno infinito. Ne segue che l’universo è uno, i mondi sono innumerevoli; infatti sebbene i singoli corpi dei mondi siano di grandezza finita, tuttavia sono numericamente infiniti. Nessun termine infatti può essere assegnato allo spazio immenso dell’etere in cui si trovano, per così dire, disseminati tanti astri, (come anche la terra è uno di essi). Vi è dunque un unico cielo. Concepiamo l’aria infinita, al di fuori di ognuno dei mondi, intesi come astri, come un unico continuo; al di fuori dell’universo, invece, non si danno né luogo, né pieno, né tempo; cosa che risulta più chiaramente dal fatto che è qualcosa di illimitato, che da qualsiasi altra ragione possa essere messa in campo da Aristotele.
Egli stesso su questo punto non saprebbe districarsi se costretto a spiegare il modo in cui al di fuori del mondo esiste qualcosa di incorruttibile, di inalterabile, impassibile, dotato di un’esistenza perfetta, per sé sufficiente e che dura per tutta l’eternità; per quale motivo, infatti, non possono esser concepite finite e corporee quelle cose che per lui non sono affatto materiali, dal momento che esse fanno riferimento a una certa differenza di luogo e sito? Come si può pensare che insensibile possa essere limitato dall’intelligibile secondo una differenza di luogo?
Perché, analogamente, poté riferire il movimento che non ha mai fine a una causa divina anziché a una meno degna, se non perché condotto e sviato, insieme col volgo, dalla confusione del senso? Perché, inoltre, la tesi di Aristotele secondo cui medesimo è il luogo da cui parte e in cui termina il moto di ciò che si muove circolarmente non ha fatto si che gli astronomi moderni potessero attestare che la filosofia di quest’uomo è fondata là dove le modeste osservazioni degli antichi astronomi erano insufficienti?
Il mondo, che gli antichi padri dei filosofi, tra cui Empedocle, dicono essere generato, per poi durare in eterno, non è l’universo, ma questa macchina e le macchine simili a questa: ad essa e a quelle simili ad essa di riferisce il detto sulla vicissitudine della generazione e corruzione, come formulato da Anassagora; ribadiamo che nessuno dei due sostiene qualcosa di contrario all’ordine naturale, infatti constatiamo che entrambi possono incontrare l’approvazione di coloro che filosofano correttamente. In realtà non c’è nessun filosofo che possa contestare che l’universo è ingenerabile e incorruttibile: nessuno, dico, di coloro che distinguono tra universo e mondi e che intesero la sostanza infinita. Dunque, il concetto che l’ordinato proviene dal disordinato, si riferisce ai mondi particolari e agli animali determinati, per cui nell’universo non si danno generazione e corruzione, ma la condizione della sua disposizione e la vicissitudine è l’ordine delle sue parti. Analogamente, anche in questo astro che abitiamo e che permane a suo modo uno e medesimo, si compie la vicissitudine della generazione e corruzione degli animali, delle piante e di molte altre cose. Sebbene, inoltre, non sia possibile che ciò che è ingenerato sia corruttibile, cosa impedisce che possa esistere qualcosa di generato che non si corrompa affatto? Infatti, nonostante questi astri siano stati tutti generati, hanno tuttavia ricevuto una tale anima e li assiste un primo efficiente tale che, come dall’esterno, riesce a tenere aggregata in perpetuo questa materia con vincoli saldissimi. Bene afferma, dunque, Platone, in ciò edotto dai filosofi egizi, pitagorici e siculi, che questi astri sono eterni (per quanto non siano privi della potenza alla dissoluzione, e siano composti da elementi contrari), laddove presenta il primo Dio che si rivolge agli dèi che gli sono intorno: “voi invero siete dissolubili, ma in nessun modo vi dissolverete”.