ASTRONOMIA AD OCCHIO NUDOIl cielo è il “soffitto” più alto. Osservandolo si ha la sensazione di una cupola semisferica. Da qualunque luogo si osservi si ha sempre la sensazione di trovarsi al centro. L’uomo ha investigato l’ambiente circostante mediante i propri sensi, in particolare mediante la vista. Il primo strumento ottico di cui l’uomo ha fatto uso per conoscere l’ambiente circostante (cielo compreso) è stato l’occhio, naturalmente nudo.
Un passo in avanti fu costituito dai Babilonesi che probabilmente utilizzavano mirini molto rudimentali ma che avevano costruito delle torri, gli ziqqurat, così da ridurre i disturbi ed avere dei riferimenti ad hoc, dalle quali effettuare le loro osservazioni. I sacerdoti mesopotamici arrivarono così a scoprire la periodicità delle eclissi lunari. Scoprirono che ogni 18 anni circa esse si ripetono alla stessa maniera. A testimonianza di quanto l’osservazione del cielo fosse accurata, un sacerdote, avvolto nell’aura del mito, rispondente al nome di Kidinnu, pare avesse calcolato il periodo sinodico della Luna con un errore di circa mezzo secondo. In ogni caso, fra alti ed inevitabili bassi, le mire sono andate via via perfezionandosi fino alla fine del XVI secolo. I migliori strumenti furono difatti quelli di Tycho Brahe, un astronomo danese (figure 2 e 3). Le sue posizioni, le più accurate, oltre a smontare buona parte delle concezioni aristoteliche, furono la base da cui partì Keplero per determinare le sue leggi del moto planetario di impostazione eliocentrica. I dati raccolti erano coerenti con gli algoritmi di Tolomeo, basati su una concezione geocentrica; tutti tranne tre. Keplero, per quanto in cuor suo convinto senza prove della bontà del modello copernicano, era così fiducioso nei dati di Tycho che per soli tre dati (su una mole vastissima) smantellò il millenario impianto geocentrico. Il tergiversare del boemo fra una forma di orbita ed un’altra fino al definitivo imporsi di orbite ellittiche di cui il Sole occupa uno dei fuochi fa parte dell’elaborazione a tavolino, non dell’osservazione diretta.
L’opera di Brahe fu però anche l’ultima conquista del cielo ad occhio nudo.
Nel 1609 Galileo Galilei ha sentore di un giocattolo inventato nelle Fiandre
(forse su idea di qualche occhialaio italiano) e comprende l’importanza che
l’oggetto può avere, opportunamente rivisto, per scopi scientifici. “La notizia
delle curiose esperienze fatte con questi occhiali arriva alle orecchie di
Galileo. D’ora in poi il decorso della storia del cannocchiale cambierà
radicalmente.” (V. Ronchi – “Il cannocchiale
di Galileo e la scienza del Seicento” –). Lo stesso Keplero sarà protagonista
di quella rivoluzione di cui l’artefice principale era stato Galileo,
realizzando un telescopio, chiamato appunto oggi kepleriano. Grazie agli
strumenti ingranditori la scienza astronomica può lanciarsi oltre gli orizzonti
del periodo precedente, andando ad investigare la natura dei corpi celesti, nel
solco di Galileo che aveva scoperto le montagne lunari, le macchie solari, la
(presunta) forma trilobata di Saturno, l’esistenza di molteplici centri di
rotazione con la scoperta di alcuni satelliti di Giove. A questa branca della
scienza astronomica si dà il nome di astrofisica, limitando l’ambito
dell’astronomia propriamente detta essenzialmente alla determinazione delle
leggi del moto.
Moto significa velocità, e la velocità è un rapporto fra due grandezze: lo
spazio ed il tempo. Anzitutto dunque, un laboratorio di astronomia necessita di
una definizione condivisa di questi due fondamentali parametri. Cominciamo dal
più complicato: il tempo. Il tempo è una variabile che scandisce il ritmo della
nostra attività e che entra nell’equazioni della fisica. Il punto essenziale è
l’esistenza nella mente umana di questa variabile suscitata da una realtà in
movimento (in un mondo statico nessuno avrebbe sentito la necessità di
introdurre questa variabile). Per Aristotele il tempo è una misura del moto in
base ad un prima ed un dopo. S. Agostino riconosceva le difficoltà di
definizione (“so che cos’è il tempo ma se me lo chiedi non so rispondere”).
Kant nella sua “Critica della Ragion Pura” lo definisce forma a priori della
sensibilità, assieme allo spazio, certo della sua fenomenica presenza dal
disporsi uno dopo l’altro dei sentimenti. I filosofi moderni, in sostanza non
hanno saputo superare il groviglio di problemi complessi che già i filosofi
greci avevano constatato (il più arguto fu forse Zenone che cercò di illustrarne
i problemi con una serie di esempi paradossali). Per loro fortuna la fisica e l’astronomia non necessitano di definizioni
apodittiche, si accontentano di definizioni operative che consentano di poter
maneggiare quelle grandezze, lasciando campo libero ai filosofi di trovare le
definizioni che si rivelano più adeguate. Accantonata dunque l’ipotesi di giungere ad una definizione univoca si
cerca una definizione operativa. Occorre misurare i cambiamenti del mondo in
cui viviamo, trovando un fenomeno ripetitivo che possa fissare una cadenza da
assumere come costante. Ogni fenomeno ciclico (che si ripete uguale a se stesso
più volte) può essere scelto per definire una scala di tempi. Dopodiché occorre
fissare nella scala, un’unità campione di riferimento ed un’origine, un punto
zero. Questo porta con sé alcune difficoltà: il tempo non si può maneggiare,
non si può spostare un intervallo di tempo per portarlo a confrontarsi con
l’unità campione (come si può invece fare con lo spazio); il fenomeno ripetitivo
scelto occorre che sia sempre presente o quanto meno attuabile. Quale fenomeno
scegliere? I battiti del polso? Le oscillazioni di un pendolo? Il fluire di
sabbia o acqua? Il consumo di una candela? Le posizioni degli astri (primo fra
tutti il Sole con l’alternarsi del giorno e della notte o delle stagioni)? Non
esiste scelta giusta o sbagliata ma solo scelta operativamente adeguata o
inadatta. Una volta eseguita la scelta, le osservazioni ed i controlli empirici
confrontati con le previsioni (basate sulle leggi fisiche) condurranno alle
opportune correzioni, o all’abbandono di un sistema per un altro migliore. Si
deve adottare la scelta più performante. La necessità di una scelta adeguata si
lega ad un aspetto non certo secondario: chi ci assicura che la periodicità sia
sempre rispettata? Purtroppo non esiste tale certezza, o se si preferisce, la
definizione operativa ci induce a rinunciare ad essa. Se ad esempio scegliessi come riferimento il battito del mio polso, il
mondo scorrerebbe più lentamente tutte le volte che ho la febbre. Se scegliessi
l’arco diurno del Sole, d’estate tutti i pendoli andrebbero più lenti che in
inverno, il polso correrebbe di meno, i fiumi avrebbero portata minore. Sarei
avvantaggiato per battere un primato di velocità! Inoltre cambiando località le
mie lancette dovrebbero correre più o meno velocemente! Tutte le leggi fisiche che coinvolgono il tempo dovrebbero predire questo
fenomeno e tenerne conto. Sarebbe una scelta operativamente adeguata? Dipende
dal contesto nel quale mi trovo. Le leggi fisiche che deduco in esso devono
però essere in grado di predire i fenomeni. Al proposito Einstein un giorno
portò un esempio. Se vedo un orologio su un campanile, devo essere in grado di
stabilire le leggi che lo regolano dall’osservazione esterna, l’unica che posso
fare. Possiamo aggiungere che fintanto che non entro dentro, pensare al
campanaio che gira una manovella o ad un ingranaggeria che muove
automaticamente le lancette sono due teorie alternative che possono entrambi
sopravvivere almeno finché non osservo un fenomeno che non ne escluda una. Se
l’orologio si ferma, è finita la carica o il campanaio si è stancato? Se vedo
il campanaio uscire e l’orologio che continua a marciare devo escludere la
prima, ma posso pensare di rivisitarla sostenendo che vi sono più campanai che
si danno i cambi. Il filosofo Popper sosteneva che la scienza è in grado solo
di stabilire la falsità di una legge, non l’assoluta certezza. Ma torniamo alle questioni astronomiche. Abbiamo da prendere in esame lo
spazio. Si tratta dell’altra forma a priori della sensibilità, secondo Kant.
Esso viene percepito mediante i sensi, in particolare con la vista ed il tatto,
come tridimensionale, a differenza del tempo monodimensionale. Varie sono le
rappresentazioni. In ogni caso per localizzare un punto occorrono tre
parametri: ad esempio altezza, larghezza, lunghezza, oppure altezza, azimut e
distanza. Ancora una volta sono più performanti tipologie diverse di
rappresentazione a seconda della forma di spazio che si vuole descrivere. Come per il tempo anche per le coordinate spaziali occorre una scala di
riferimento campione ed un’origine, un punto zero, in funzione del quale
esprimere la percezione dello spazio, la posizione. Abbiamo detto che il cielo
viene immaginato come una cupola sferica. Se il mio intento è quello di
occuparmi del cielo, in uno spazio a simmetria sferica, è performante un
sistema che tramite due coordinate identifichi l’orientamento (assoluto o
relativo) del punto ed un opportuno confronto di coordinate (con un altro punto
preso come origine) dia la distanza. La percezione del cambiamento di stato
delle cose è in sostanza la variazione dello stato spaziale (variazione
dei parametri di orientamento e distanza) nel fluire del tempo. Ad esso l’uomo
ha dato il nome di movimento, differenziando la variazione dello stato di moto
mediante la grandezza velocità, espressa come rapporto tra il vettore
variazione di posizione ed il tempo.
A quel moto che, a prescindere dalla velocità, presenta la caratteristica di
mantenere fissa la distanza da un riferimento si attribuisce il nome di
rotazione. Ed a prescindere dalla causa, la volta celeste e gli oggetti ivi
contenuti appaiono ruotare sopra di noi attorno ad un punto fisso (figura 4).
Detto questo, occorre stabilire un sistema di riferimento. Per il tempo, in
quanto monodimensionale, la questione si risolve più semplicemente. Lo spazio è
invece tridimensionale ed occorrono comunque tre parametri. Se però assumo che
il cielo, almeno apparentemente, sia semisferico a distanza costante, per
quanto sconosciuta dall’osservatore, disinteressandomi di essa posso
localizzare un punto sulla volta celeste mediante due soli parametri. La
sensazione che tutto il cielo sia una cupola in rotazione e che gli astri siano
incastonati su di essa fa capire come si debba aspettare la fine del ‘500 con
Digges e Bruno per far “esplodere” il cielo delle stelle fisse (figura 5).
Poiché esiste una linea naturale detta orizzonte che separa la terra dal
cielo (che appare ruotare) il più semplice sistema (detto altoazimutale, figure
6) sfrutta queste due componenti: un piano che contiene l’orizzonte (il piano
orizzontale) ed un altro, univocamente determinato, ad esso perpendicolare,
passante per l’osservatore (in tutti i sistemi di riferimento l’osservatore è
il centro, l’origine delle coordinate spaziali), il fulcro della rotazione e lo
zenit (piano meridiano). Tali piani costituiscono l’origine di due angoli. Lo
scostamento angolare sul piano dell’orizzonte si definisce azimut, quello ad esso
perpendicolare altezza. Ad eccezione del mare aperto, dal punto di vista
operativo l’orizzonte si definisce male come piano, per la presenza di case,
alberi, muri. Viene pertanto definito come quel piano perpendicolare alla
direzione del filo a piombo.
Il movimento dei corpi celesti lungo la volta suggerisce pure di utilizzare
un sistema legato agli stessi astri. Il sistema equatoriale relativo sfrutta lo
stesso piano meridiano dell’altoazimutale ed un piano contenente il cerchio
massimo della rotazione celeste (piano equatoriale). Rispetto ad essi le
coordinate vengono definite angolo orario (solitamente indicato con H)
e declinazione (abbreviata con d). Sostituendo il piano meridiano con un
piano passante per un punto “speciale” della volta e ad essa vincolato (e
quindi completamente svincolato dalla località dell’osservatore) si ha il
sistema equatoriale assoluto (figura 7), dove l’angolo orario viene sostituito
dall’ascensione retta (indicata con a). La differenza tra il sistema
equatoriale relativo e quello assoluto sussiste nella sostituzione dell’angolo
orario (del sistema relativo) con l’ascensione retta (del sistema assoluto). Le
due origini differiscono per un angolo (espresso in ore: 360° = 24h) che cambia
per il verso di crescita e con lo scorrere del tempo.
L’osservazione del moto degli astri sulla volta mostra che alcuni luminari
seguono una rotazione che differisce da quella della stragrande maggioranza, a
cui viene dato il nome di stelle. Sono i pianeti (la cui etimologia dal greco
significa proprio errante). Uno dei casi più eclatanti è quello del
Sole. Se ne accorse, forse per primo, Anassimandro (610-547 a.C.) a cui
gli si deve la scoperta dell’obliquità dell’eclittica, cioè del cammino del
Sole nel cielo. Questa scoperta non è poi così ininfluente perché evidenzia
come mentre la posizione assunta oggi dalle stelle è identica a quella di
domani ad un’ora diversa, la posizione assunta oggi dal Sole non si ripresenta
domani.
Per una serie di misure che hanno per riferimento il Sole risulta utile
costruire un sistema di riferimento relazionato ad esso (figura 8). I piani
sono l’eclittica (cammino apparente del Sole, dove hanno luogo le eclissi) ed
il piano normale al primo passante per i punti gamma e libra (le intersezioni
dell’eclittica con l’equatore celeste). Le coordinate si chiamano latitudine e
longitudine eclittiche. Il piano eclittico appare inclinato di i =
23°26’24” rispetto all’equatore celeste, il polo punta nella costellazione del
Drago a a = 18h; d = 66°33’36” (cioè 90°- i).
In alcuni contesti può risultare utile un ulteriormente diverso sistema di
riferimento, detto sistema di riferimento galattico (figura 9). Si tratta di un
sistema assoluto, analogo a quello equatoriale o eclittico, le cui coordinate
prendono origine da due piani tra loro perpendicolari. Il piano di riferimento
principale è quello della Galassia e l’intersezione nel presunto centro
galattico, a coordinate equatoriali assolute a =
17h39m18s; d = -28°54’ (epoca 1900.0). Le coordinate riferite a questi
piani sono la latitudine e la longitudine galattiche. Il numeretto che segue
l’epoca è l’anno in cui quelle coordinate sono rigorosamente corrette (nella
fattispecie, il 1900). Infatti, come accenneremo più avanti, il sistema
equatoriale assoluto ha come riferimento il Sole, tiene cioè fisse le proprie
coordinate rispetto al moto del Sole. In realtà le stelle hanno un piccolo moto
proprio rispetto a queste coordinate (si tratta in realtà di un moto della
Terra che prende il nome di precessione dell’eclittica e che fu scoperto da
Ipparco nel II sec. a.C.), pertanto il centro galattico vede cambiare le
coordinate al passare delle epoche.
Possiamo riepilogare dicendo che: tutti i sistemi di riferimento trattano
la volta celeste come una cupola e si disinteressano dell’eventuale differenza
di distanza degli astri; tutti i sistemi di riferimento hanno per origine, nel
calcolo delle coordinate, due piani perpendicolari tra loro che intersecano la
volta celeste in due cerchi massimi; il sistema di riferimento altoazimutale ed
il sistema di riferimento equatoriale relativo hanno le coordinate che
dipendono in tutto o in parte dal luogo dell’osservatore; i sistemi equatoriale
assoluto, eclittico, galattico sono assoluti e le coordinate dipendono solo
dalla posizione in cielo dell’astro, riferita a diversi piani di riferimento, a
seconda di quale sistema si stia adottando. La scelta dei sistemi di riferimento ha privilegiato l’aspetto spaziale, il
passo successivo consiste nel congiungerlo con quello temporale che, abbiamo
detto, è più semplice da trattare in quanto monodimensionale, ma non per questo
banale. I moti degli astri si sono rivelati gli orologi più precisi per un
lunghissimo intervallo di tempo. Quali fenomeni astronomici sono stati scelti?
L’alternarsi del giorno con la notte, l’alternarsi delle stagioni, le fasi
lunari, la rotazione delle stelle sulla sfera celeste. I moti degli astri in
genere sono stati i migliori orologi di cui l’uomo ha disposto anche per tutte
le applicazioni pratiche fino all’800. Solo nel XX secolo si sono avuti dei
segnatempo più affidabili. Non a caso fino al ‘900 le definizioni operative
della fisica si basavano sui moti celesti. In una civiltà rurale come era
essenzialmente quella romana, l’intervallo di tempo era l’ora, la dodicesima
parte (retaggio babilonese) dell’arco diurno del Sole per il giorno ed i
quattro turni di guardia (le vigilie) durante la notte. Quindi è divenuto
campione di riferimento la 3 600-esima parte (un altro retaggio babilonese)
dell’ora, il secondo. Dapprima definito come 86 400-esima parte del Giorno
Solare Medio (GSM). Poi quando ci si è accorti che il giorno si allungava
progressivamente si è passati ad altra definizione. Quelle attuali si basano
sulle leggi della fisica atomica (1 s = 9 192 631 770 transizioni del cesio-133).
Il numero prende origine dalla scelta di rendere i due tempi coincidenti in un
giorno preso come riferimento per il passaggio da uno all’altro sistema. Abbiamo detto Giorno Solare Medio. Ma cosa è? E’ esperienza banale
osservare che il Sole compie un arco in cielo diverso a seconda delle stagioni.
D’estate le giornate sono più lunghe, cambiando istante e posizione del sorgere
(e del tramontare). La massima altezza (culminazione) viceversa avviene sempre
nella stessa direzione (a sud per tutti i luoghi della Terra sopra il tropico
del Cancro, a nord per tutti i luoghi a sud del Tropico del Capricorno).
Scegliere il transito come l’istante d’inizio porta numerosi vantaggi. Su
questa considerazione si basa il Giorno Solare Vero (GSV) definito come l’intervallo
di tempo che intercorre tra due passaggi in culminazione del Sole (scelgo la
culminazione inferiore per non avere il cambio di data nel bel mezzo delle
attività diurne). Niente comunque mi impedirebbe di scegliere la culminazione
superiore e di aggiungere 12 a posteriori. Dato che la culminazione avviene al transito in meridiano questo intervallo
di tempo coinciderà per tutti i luoghi che condividono lo stesso meridiano ma
sarà diverso per luoghi anche vicini ma su meridiani diversi. Il GSV ha quindi
un significato locale. Il GSV, oltre ad essere locale, presenta ulteriori
inconvenienti. Utilizzando dei mezzi meccanici di misura ci si accorge che la
durata di questo intervallo varia nei diversi periodi dell’anno (si noti di
passaggio che aver detto “varia” rivela che non è stato scelto il GSV come
riferimento fisico del tempo). Per ovviare a questo inconveniente è stato
definito un Sole Medio che parte dal punto gamma e arriva negli stessi istanti
del Sole Vero ma che si muove sull’equatore a velocità costante. Si sono così
eliminate le variabilità dovute all’inclinazione dell’eclittica e la velocità
orbitale variabile della Terra. Si ha così un Tempo Solare Medio (TSM) che è
basato sul Giorno Solare Medio (GSM), ovvero l’intervallo di tempo che intercorre
tra due passaggi in culminazione del Sole Medio (è il tempo scandito dagli
orologi, ma non l’ora dell’orologio). Solo tra due passaggi in culminazione del
Sole Medio passano sempre 24 ore. Abbiamo così risposto alla domanda che ci eravamo posti in precedenza.
Tuttavia, anche solo di passaggio, possiamo evidenziare come il GSM risolva
alcuni problemi, creandone altri. Prima della definizione atomica del tempo,
l’orologio più affidabile era lo strumento che si rifaceva direttamente al moto
degli astri. Uno di essi, sicuramente quello più usato e diffuso, era la
meridiana (fugura 10). Ma una meridiana funziona col Sole Vero e segna il Tempo
Solare Vero (TSV), non quello medio, a meno di opportune correzioni, dal
momento che l’ombra è naturalmente prodotta
dal Sole Vero che coincide con
quello Medio solo all’equinozio di primavera. La differenza varia in funzione
del giorno e si chiama Equazione del tempo ed è pari a E = TSV-TSM.
Lo scostamento tra il mezzo del giorno ed il mezzogiorno viene talvolta
riprodotto graficamente su alcune meridiane. Si tratta di una linea chiusa a forma di “8” che prende il nome di analemma
(figura 11). Scandito sul Sole Medio con inizio alla mezzanotte (requisito di
fatto oggi adottato da tutti i paesi anche se non necessario) e riferito ad una
località significativa dal punto di vista civile, anche se totalmente estranea
dal contesto geografico-astronomico è il Tempo Civile (TC), reso necessario per
le comunicazioni fra località, anche significativamente distanti, che non
potevano essere regolate, è proprio il caso di dire, sullo stesso campanile. Quasi tutte le attività umane sono scandite dal Sole Vero, ma il numero
crescente di interconnessioni fra i vari centri urbani (vie commerciali prima,
treni e telegrafi poi) ha reso necessario standardizzare i tempi. Nel corso
della storia si adottarono ore di uguale durata (scostamenti di frazione d’ora
per le attività pratiche non sono significativi) con inizio alla mezzanotte di
Tempo Civile. In Toscana un editto dei Lorena impose il passaggio alle ore
“alla francese” nel 1749, come già in vigore in molti altri paesi europei. E’
curioso notare come gli uffici pubblici, dal 1 gennaio 1749 fossero obbligati
ad adottare il nuovo sistema nel computo del tempo, sotto la minaccia di multe
salate a chi avesse trasgredito. Tuttavia il mondo contadino continuava a
togliersi il cappello all’Ave Maria della sera, che segnava il passaggio da un
giorno al successivo, e pure le meridiane continuavano a riportare ancora le
ore all’italiana, se non in maniera esclusiva per lo meno in aggiunta (si veda
nella precedente figura 10 le due serie di linee orarie). L’Italia unita adottò un tempo medio per tutta l’Italia col Regio Decreto
3224 il 22 settembre 1866. Il decreto escludeva le isole che invece avrebbero
seguito il tempo civile rispettivamente di Palermo e di Cagliari.
L’unificazione su un solo tempo civile avvenne nel 1893 (figura 12) con
l’ingresso nello Standard Time, il tempo del meridiano di 15° di
longitudine est. Ma per territori più ampi di una regione? E per diversi stati? Negli Stati
Uniti nel 1870 si avevano 50 diversi orari (e ogni compagnia ferroviaria
seguiva la propria ora). Si rendeva necessario uniformare tutto il Paese, ma
d’altra parte una sola ora fra Atlantico e Pacifico rendeva troppo stridente il
contrasto col Sole Vero. Nel 1859 il bolognese Quirico Filopanti aveva proposto
di suddividere la Terra per mezzo di meridiani. Poiché 360°/24h = 15°/h
possiamo dividere la Terra in 24 spicchi detti fusi di 15°. Le ore dei
meridiani 15°, 30°, 45°, … stabiliscono l’ora di tutto il fuso, differente di
un’ora da quella del contiguo. “Quando un orologio… batterà un’ora
qualunque, tutti gli orologi del Mondo … suoneranno in quel medesimo istante, e
indicheranno o quella stessa ora od una qualunque altra ora intera.” (Q.
Filopanti).
In una conferenza del 1879, spinta dalle pressanti esigenze soprattutto di
compagnie come la statunitense American Railway Association, si stabilì
l’adozione dello Standard Time = tempo di Greenwich, più o
meno un numero intero di ore, di fatto l’attuazione dell’idea di Filopanti,
anche se un po’ sgarbatamente il suo nome non fu ricordato, tanto da essere
noto oggi solo agli studiosi dell’argomento (d’altra parte gli USA hanno impiegato
ben oltre un secolo per riconoscere i meriti di Meucci nell’invenzione del
telefono...). Oltre agli Stati Uniti, principali fautori, quasi tutti i paesi del Mondo
aderirono nel giro di pochi anni. L’Italia aderì nel 1893. Nel 1897
praticamente tutta Europa aveva aderito (anche la Francia adottò il tempo di
Greenwich, ma la ruggine della vittoria di Wellington sulle truppe napoleoniche
e lo sciovinismo innato transalpino spinsero a dichiarare ufficialmente che si
trattava del tempo di Parigi ritardato di 9m21s!). Oggi tutti paesi del Mondo
hanno adottato, almeno per le transazioni internazionali, il principio dei fusi
orari, anche se esigenze civili fanno sì che talvolta l’ora di alcuni distretti
è quella del fuso adiacente (figura 13). In astronomia per uniformarci si elegge il TC di un particolare fuso come
quello universalmente rappresentativo (Tempo Universale, TU). E’ stata una
scelta pressoché obbligata quella di prendere il meridiano passante per
Greenwich, discriminante fra zona est ed ovest del Mondo. A molti dei problemi riguardanti il moto “irregolare” del Sole si può
ovviare con un’altra scelta del fenomeno ripetitivo segnatempo: prendendo per
esempio il moto di una stella scandito dal transito in meridiano. Si tolgono di
mezzo i problemi inerenti alla variabilità della velocità orbitale terrestre ed
all’inclinazione dell’eclittica. Questo è il cosiddetto Tempo Siderale. Poiché
ogni località ha un meridiano proprio anche il Tempo Siderale ha un significato
locale (da cui l’abbreviazione TSL) e si calcola come: TSL = H+a, dove H è
l’angolo orario e a l’ascensione retta (presente sui cataloghi e le
carte del cielo) della stella. Analogamente al TU si definisce un tempo
siderale assoluto (TSG) rappresentativo della Terra il TSL del meridiano di riferimento
prescelto (ancora una volta quello di Greenwich). Nel tempo che la Terra compie una rotazione attorno al proprio asse ha
avanzato pure lungo l’orbita. Perché il Sole ritorni in meridiano (Giorno
Solare Medio) occorrerà un tempo maggiore di quella che occorre ad una stella
(Giorno Siderale) che, essendo “a infinito” non risente dei moti orbitali
terrestri Poiché il Sole impiega un anno tropico (che dura 365.2422 GSM) a
ritornare nel punto gamma ogni giorno c’è un ritardo del Sole rispetto alle stelle
di 360°/365.2422 = 24h/365.2422 = 3m56s. Poiché le nostre 24 ore sono scandire
sul giorno del Sole, il Giorno Siderale dura 24h-3m56s = 23h56m4s. Per praticità, in ambito astronomico, è stata adottata pure un’altra
grandezza, il Giorno Giuliano, definito come numero progressivo di giorni
intercorsi dal 1 gennaio del 4713 a.C., alle ore 12 di TU. Si tratta di un
giorno di durata coincidente con quello medio ma che si differenzia per essere
indipendente dalla scansione calendariale degli anni, dei mesi, delle
settimane. Joseph de l’Escale de Bordons (1540-1609) ideò il Giorno Giuliano in
cui ogni giorno ha un’unità più del precedente. L’inizio fu stabilito quando
coincisero gli inizi dell’indizione romana (15 anni), che oggi ha solo valenza
liturgica, ciclo solare (di 28 anni), numero d’oro (di 19 anni) legato al ciclo
lunare. La prima tornata della data giuliana, “l’anno giuliano”, per così dire
(senza fare confusione col vero anno giuliano che sancì l’attuazione della
riforma del calendario e che introdusse l’anno bisestile), si concluderà il 22
gennaio 3267. Come posso sapere la posizione del Sole sapendo l’ora (e ovviamente la
data)? L’ora e la data danno le coordinate (angolo orario ed ascensione retta) TSL=Hv+av=Hm+am ; Hv– Hm =av– am =
E; av = E+am Gli antichi potevano fare una misura diretta del Sole? No, si affidavano
alla distanza rispetto alle stelle. Così non si accorsero che molto tempo
dopo am in realtà variava: si trattava del fenomeno di precessione
degli equinozi, che scoprirono difatti in un’altra maniera, ed in un certo modo
aumenta ancora più la nostra ammirazione per Ipparco che se ne accorse nel II
sec. a C.
Svariati furono gli strumenti usati per la misura del tempo. Sicuramente
quelli più rinomati ed anche più appariscenti furono le meridiane che
assolvevano al duplice scopo di segnare sia lo scorrere del tempo nella
giornata, sia la stagione dell’anno. Le meridiane che nascono in Grecia avranno
largo impiego e diffusione ovunque, restando gli orologi più precisi per tutto
il XIX secolo. Nel ‘500 avevano avuto una certa diffusione gli orologi
meccanici (uno dei primi è quello di Palazzo Vecchio a Firenze, datato 1353),
evoluzione degli svegliarini monastici utilizzati nel Medioevo dai monaci per
le preghiere notturne, ma la loro affidabilità era scarsa. Le meridiane più
semplici sono quelle piatte orizzontali o verticali, ma ci sono anche altri
modelli equatoriali, concave, convesse e perfino a rifrazione, senza
considerare il largo impiego delle navate delle chiese come camere oscure, una
variante al principio base della meridiana, che si fondano sul principio di
proiettare l’ombra (o un pennello di luce nel caso delle camere oscure) su una
superficie di riferimento. Si tratta dunque di strumenti basati sulla geometria
proiettiva, non poi troppo complicate da realizzare, tanto che alcuni artigiani
si dilettavano a costruirne di sempre più complesse, sulle superfici più
disparate per dimostrare la loro competenza in fatto di geometria, più che per
una reale utilità. Anche altri strumenti come l’astrolabio (figura 14), che può
essere usato anche come orologio e calendario, si basa su una geometria
proiettiva (il che induce delle deformazioni nell’aspetto del cielo come ad
esempio l’orizzonte che in certi modelli ha due cuspidi). Il notturlabio, o
notturnale (figura 15), invece non si basa sulla proiezione. Esso è capace
difatti di indicare l’ora a partire dall’osservazione diretta della posizione
di alcune stelle dell’Orsa Maggiore (sempre visibili essendo circumpolare) in
riferimento alla Polare, assai prossima all’asse polare già da alcuni secoli.
Come si può facilmente intuire, il cielo, osservato attraverso l’occhio
nudo, è stato capace di dare all’uomo anche l’orientamento. Un semplice bastone
piantato nel terreno (che per inciso può essere lo gnomone di una meridiana
orizzontale) è capace di dare l’asse nord-sud e di conseguenza il piano
meridiano. Basta tracciare un cerchio di opportune dimensioni concentrico alla
base del bastone ed attendere che l’ombra al mattino ed al pomeriggio intersechi
la circonferenza. Si tratta del cosiddetto cerchio indiano (figura 16).
Entrambe le bisettrici tra i due punti di intersezione sono sull’asse meridiano
(una a nord, l’altra a sud). La precisione della determinazione dipende dalle
dimensioni dello gnomone e dal contrasto della sua ombra sul piano, comunque
ben difficilmente si ottiene una precisione inferiore a quella di una bussola
che, per l’Italia, declina ad ovest di un paio di gradi (il valore varia da
zona a zona ed anche in funzione del tempo) poiché punta verso il polo nord
magnetico, discosto dal polo geografico di una decina di gradi. Comunque sia la
bussola ha avuto la sua grande utilità, specie in marina, anche in virtù di non
essere soggetta ai capricci del tempo.
Una volta ottenuto l’asse meridiano (la cui utilità si riflette anche sulla
misura del giorno solare) l’uomo ha cominciato ad interrogarsi sulle dimensioni
e la forma dell’oggetto su cui viveva. Secondo gli Egizi, i Babilonesi ed il
filosofo greco Talete (634-548 a.C.) la Terra è il “pavimento” di una scatola
ed è quindi piatta. Nel circolo degli iniziati della scuola pitagorica tuttavia
comincia a prendere corpo la concezione cosmologica secondo la quale la Terra è
sferica e ruota, come il Sole e gli altri pianeti, attorno ad un fuoco
centrale. L’idea è dello stesso maestro, Pitagora (571-496 a.C.), o
dell’allievo Parmenide (520-440 a.C.). Da allora in poi (salvo la pausa
medievale) gli eruditi sono convinti della sfericità del nostro pianeta. Anche
Aristotele ne è convinto e porta a testimonianza l’altezza delle stelle alle
diverse latitudini, la vista delle navi all’orizzonte, la forma dell’ombra
delle eclissi lunari. Le obiezioni a Cristoforo Colombo nel XV secolo
(rivelatesi poi fondate) riguardavano le distanze non la sfericità.
Se dunque la Terra è una sfera la sua cartografazione può essere fatta
sulla falsa riga della cartografazione celeste (figura 17). Tralasciamo il
discorso della distanza dal centro e con due soli parametri siamo in grado di
stabilire in maniera univoca un punto sulla superficie. Le due coordinate che
prendono origine dal cerchio massimo detto equatore e da un meridiano d’origine
si chiamano latitudine e longitudine. Numerosi sono i metodi astronomici
impiegabili per determinare le due grandezze. La latitudine si misura con
numerosi strumenti che generalmente calcolano un angolo. L’altezza della Polare
(figura 18), il Sole a mezzogiorno, ma anche l’altezza di una qualunque stella
sono in grado di fornire la latitudine del luogo di osservazione, a patto di conoscere
la declinazione dell’astro. La formula generale è j = h(N)+d-p/2,
dove j indica la latitudine, h l’altezza (contata a
partire dall’orizzonte nord), d è la declinazione
dell’astro, p/2 è una costante, pari ad un angolo retto, espresso in
radianti (a patto di esprimere anche le altre grandezze in radianti). La
longitudine è sicuramente più complessa da determinare, anche se la formula
rimane piuttosto semplice, non essendoci un riferimento astronomico univoco
(difatti la scelta dello zero su Greenwich è puramente convenzionale, non a
caso nel corso dei secoli lo zero è passato per Alessandria, per le isole
Fortunate – Canarie –, per le
Azzorre e così via). L’espressione è l
= TSG-TSL, dove l indica la longitudine
mentre TSG e TSL i tempi siderali di Greenwich e locale. La difficoltà risiede
nel fatto che mentre sono qui ad osservare non posso essere anche a Greenwich e
se fossi ad osservare a Greenwich non sarei qui. L’occhio nudo mi consentirebbe
di determinare la longitudine se contemporaneamente un altro dispositivo mi
fornisce il tempo siderale di Greenwich. Fino a metà del XVIII secolo anche col
bel tempo la longitudine era un problema in apparenza senza speranza in quanto
non esisteva orologio capace di mantenere in mare l’ora precisa del porto di partenza.
Un secondo sgarrato comporta 15” d’arco, una deriva di mezzo chilometro ad
oriente, se anticipa, a occidente se ritarda. Per raggiungere un porto mi
potrei accontentare di un errore contenuto nella decina di secondi, ma per
evitare scogliere o bassi fondali un paio di secondi sono fondamentali. Citiamo
qualche episodio e l’epilogo per dovere di completezza anche se esula dal
periodo dell’osservazione del cielo ad occhio nudo (lo stesso Galileo,
inventato il telescopio, aveva proposto il celatone, un sistema che faceva uso
di un cannocchiale).
Si racconta che sir Clowdisley Shovell, al comando della propria flotta,
stava tornando vittorioso verso Londra dopo alcune schermaglie con le navi
francesi dalle parti di Gibilterra. Era il mese di ottobre del 1707. In base
alle valutazioni del punto stimato, tutti gli ufficiali di rotta erano
d'accordo con l'ammiraglio che la flotta si trovasse ad ovest dell'isola di
Ouessant, una delle isole al largo della Bretagna, ed era convinzione generale
che le navi fossero in acque profonde e quindi al sicuro. Purtroppo cadde la
nebbia e le navi furono costrette a muoversi senza che le vedette potessero
scorgere eventuali pericoli. I calcoli erano sbagliati, le navi erano
pericolosamente vicine alle isole Scilly, contro le quali andarono ad urtare
nella notte del 22 Ottobre (figura 19). Di una flotta di cinque navi da guerra
ne affondarono quattro, portando negli abissi migliaia di uomini. Due persone
si salvarono, una di queste fu proprio l'ammiraglio che, mentre guadagnava con
fatica la riva, senz'altro avrà pensato a quel marinaio che aveva fatto
impiccare il giorno prima. Quel marinaio aveva osato, per proprio conto,
calcolare la posizione delle navi ed essendosi convinto che esse fossero
pericolosamente vicine alla costa, aveva avvertito l'ammiraglio. L'ammiraglio,
applicando le regole della marineria militare inglese, lo aveva fatto
immediatamente impiccare, infatti nelle regole di ingaggio era esplicitamente
proibito ai marinai di rilevare la posizione delle navi. Una volta giunto a
riva, l'ammiraglio venne ucciso da una contadina del luogo, innamorata
perdutamente dell'anello di smeraldo che Shovell portava al dito. Ma questo si
seppe solo quando la stessa contadina, presa dal rimorso confessò, in punto di
morte, il delitto al suo Pastore, portando in prova l'anello rubato
all'ammiraglio.
La determinazione della longitudine era una questione di rilevanza
strategica, economica e militare, tanto che il Parlamento inglese, per evitare
altre sciagure come quella delle isole Scilly, emise un bando nel 1714, con un
premio di 20 000 sterline a chi fosse riuscito nell’impresa di scovare un
metodo per determinare la longitudine in mare. La perizia e l'ingegno di un
orologiaio di nome John Harrison portarono a compimento un segnatempo il quale
raggiunse il 19 gennaio 1762 le coste della Giamaica, perdendo 5 secondi dopo
81 giorni di navigazione. La sfida era stata vinta. Fanno parte dell’aneddotica
i risvolti poco nobili degli astronomi che si arrampicarono sugli specchi pur di
non decretare la vittoria di un orologiaio. Le date mostrano comunque in
maniera inequivocabile che la questione della longitudine, soprattutto in mare,
fu un problema che si risolse senza telescopio ma in piena era telescopica. Se da un lato la longitudine in mare aperto era una spina nel fianco della
scienza, visto che il rollio ed il beccheggio di una nave (oltre ai problemi di
variazione di temperatura, pressione, umidità) non consentivano ad un orologio
di mantenere l’ora, essa poteva essere rilevata con una certa precisione su un
luogo fisso come un’isola, avendo a disposizione tutto il tempo necessario,
aspettando che si verificasse un evento, visibile contemporaneamente anche da
Greenwich. Occasioni del genere non mancavano. Si trattava delle eclissi. Anche
Cristoforo Colombo avrebbe potuto scoprire l’America se fosse stato capace di
eseguire correttamente la rilevazione di una eclisse lunare avvenuta nel 1509 e
di interpretare correttamente le tavole del Regiomontano di cui disponeva (le
malelingue sostengono che in realtà Colombo le aveva interpretate bene ma
finse, con un camuffamento dei dati, per riportare in Spagna l’idea di essere
arrivato davvero nei pressi del Cipango, invece di non essere neanche a metà
strada). In ogni caso degli astri l’uomo si è servito per determinare anche le
dimensioni dell’ambiente in cui vive, cominciando dalla Terra. Longitudine e
latitudine a parte si tratta di determinare il terzo parametro, la famosa
distanza dal centro.
Eratostene di Cirene (276-196 a.C.) fu probabilmente il primo a concepire
l’idea di misurare la Terra, in un’ottica di sfericità acquisita. Non ci è
giunta l’opera originale di Eratostene e non sappiamo nemmeno, se non per linee
generali, quale procedura adottò. Sicuramente comunque la sua fu una misurazione
di differenza di altezza del Sole al solstizio, da due diverse località. Egli
sapeva che durante il solstizio d’estate la luce del Sole penetrava nei pozzi
profondi di Syene, mentre ad Alessandria un lungo obelisco proiettava una certa
ombra (figura 20).
Il risultato ottenuto fu di 250.000 miglia per il meridiano terrestre,
probabilmente qualcosa dell’ordine dei 39 400 km, un risultato
sorprendentemente vicino al vero (L = 40 009 km). Nell’ipotesi di Terra sferica
il raggio risultava di 6 270 km (contro i 6 370 km circa). Nel I secolo a.C. Posidonio di Canapea propose una nuova misura del
meridiano terrestre, sulla falsariga di Eratostene. Egli propose di osservare
l’altezza di una stella (nella fattispecie Canopo) da due località, Rodi ed Alessandria,
e di determinare la loro distanza mediante i resoconti dei marinai che
percorrevano quella rotta. Anche se in linea di principio il metodo era
altrettanto valido di quello di Eratostene ottenne un valore meno preciso (L =
37 800 km) perché non era a conoscenza dell’effetto della rifrazione che alza
la posizione degli astri riducendo la differenza angolare delle misure. Per il mondo occidentale la storia si interrompe, una nuova determinazione
arriverà dopo l’oblio medievale solo nel XVII secolo. Durante questo lungo
periodo sono gli Arabi l’avanguardia del progresso scientifico. Nel 827
l’astronomo arabo Al Mamum propose una nuova determinazione del meridiano
terrestre. Allo scopo vennero effettuati sopralluoghi nella piana di Sindjar,
valutando l’altezza del Sole ai due estremi e poi calcolando la distanza delle
postazioni. A differenza di Eratostene e Posidonio, che avevano sfruttato i
resoconti di altri per la determinazione della distanza, in questo caso il
calcolo ebbe come finalità prioritaria la determinazione scientifica. Il
risultato fu di circa 38 600 km, un valore un po’ sottostimato. Nel 1614 Snell (1580-1626) effettuò una triangolazione dei territori
olandesi dalla quale ottenne L = 38 600 km. Nel 1633 Riccardo Norwood eseguì un
lavoro geodetico fra Londra e York ottenendo L = 40 200 km. Nel 1669 Jean
Picard eseguì una triangolazione francese ed ottenne L = 40 033 km. Nello
stesso anno intanto Huygens sospettò la non sfericità della Terra,
ipotizzandone uno schiacciamento ai poli. Per comprovare, o smentire, l’ipotesi
di Huygens molti scienziati ed astronomi vennero inviati ad eseguire campagne
di rilevazione. Se la Terra è schiacciata l’arco di meridiano in prossimità
dell’equatore è più lungo che al polo. Così l’Accademie de Sciènces inviò
Bourguere e La Condamine in Perù (1735) e Maupertuis in Lapponia (1736); in
Italia troviamo impiegati, Zannoni, Inghirami, Boscovich e Maire (1750). Di
nuovo finiamo fuori “tempo massimo”. L’era del cielo ad occhio nudo era finita
da oltre un secolo. Difatti per le loro campagne di rilevazione gli scienziati
si avvalevano di strumenti quali l’odometro, la tavoletta pretoriana e piccoli
telescopi. Di tanto in tanto allestivano anche piccoli osservatori da campo.
Non pago di determinare la misura della Terra l’uomo ha cercato di misurare
anche il cosmo. Il primo metodo ha sfruttato la parallasse, cioè la diversa
angolazione con cui si guarda un oggetto, rispetto ad uno sfondo lontano, in
virtù della distanza tra i due punti di vista.
Certamente il primo astro a finire sotto il vaglio degli scienziati è stato
il corpo che ha dato la sensazione di essere il più vicino: la Luna. Alla
distanza a cui si trova la parallasse sfiora 1°. Si tratta di un valore
piccolo. Per la precisione con cui i Greci potevano stimarla avrebbero ottenuto
errori troppo grandi, per cui utilizzarono poco questo metodo, anche se vedremo
che Ipparco lo tentò con successo (figura 21). Aristarco ipotizzò di sfruttare
le eclissi in un processo a due fasi: nell’ipotesi di Sole “a infinito”, se si
comparano le dimensioni dell’ombra terrestre e della Luna, si ottiene un raggio
lunare pari a circa ¼ di quello terrestre (figura 22). Col raggio che poi
Eratostene avrebbe calcolato si ottenevano 1 570 km (contro i 1 738 delle stime
attuali). Comparando quindi le dimensioni angolari della Luna con le dimensioni
effettive appena calcolate otteneva pure la distanza. Il valore ricavato da
Aristarco fu di circa 60 raggi terrestri, un valore assai prossimo al vero.
Già i Greci, oltre che della Luna, si erano presi cura di calcolare anche
la distanza del Sole, riuscendo però assai peggio nell’impresa. Sempre
Aristarco aveva proposto il metodo della dicotomia solare. La Luna al quarto
non occupa la stessa posizione che occupa a metà strada fra il primo e l’ultimo
quarto a causa della distanza finita del Sole, differisce di circa 8’ = 0.15°
(figura 23). Aristarco rilevò invece uno scarto di 3° ottenendo una distanza,
rispetto all’orbita della Luna, 19 volte maggiore (il valore corretto oggi è
390 volte maggiore). Ipparco di Nicea (188-125 a.C.) sfruttò il metodo della
parallasse lunare, per la quale ottenne 53’, e la combinò con l’eclissi per
determinare le dimensioni effettive della Luna. Mediante la dicotomia, come
aveva fatto Aristarco, giunse ad una stima di distanza del Sole di 1 100 raggi
terrestri (oggi sappiamo essere 23 500). Siamo ancora lontani ma ci si muove
nella giusta direzione. A posteriori, con la misura di Eratostene,
sarebbe giunto ad una distanza di 7 milioni di km. La stima di Ipparco per quanto
fuori misura era comunque sufficiente a stimare le dimensioni del Sole pari ad
almeno cinque volte il globo terrestre (vuol dire che era sicuramente più
grande del Peloponneso come aveva suggerito Anassagora, sia pure su
considerazioni erronee come la piattezza della Terra, tre secoli prima!).
Copernico, ben sedici secoli più tardi, a testimonianza della pochezza di
risultati nell’intermezzo medievale, si attesta sugli stessi valori. Keplero si
avvicina di più facendo affidamento sulle osservazioni di Tycho Brahe. Affermò
che il Sole ha una parallasse minore di quella di Marte che è 1’. Quindi il
Sole dista più di 20 milioni di km, ma ciò che più conta dell’opera di Keplero
è che mediante la sua terza legge sul moto dei pianeti è possibile determinare
la corretta scala delle distanze nel sistema planetario. I metodi telescopici
dei secoli successivi portarono ad una stima sempre più prossima ai canonici
149.6 milioni di km, ma l’osservazione ad occhio nudo della posizione dei
pianeti, in tempi diversi, congiunta con le leggi di Keplero consentiva già di
stabilire le dimensioni di tutte le orbite in rapporto all’orbita terrestre.
Un laboratorio dell’astronomia non può tacere uno degli aspetti salienti,
vale a dire la stima della luminosità degli astri, stima che per secoli l’uomo
ha dovuto eseguire col solo occhio nudo. La magnitudine apparente è un
parametro che stabilisce la luminosità percepita di una stella. Il termine
magnitudine richiama la grandezza. Infatti, ipotizzando che le stelle fossero
tutte alla stessa distanza, la luminosità e la grandezza erano in relazione
diretta. Forse il primo che ebbe l’idea di catalogare le stelle secondo la loro
luminosità fu Ipparco. Nonostante i progressi tecnici, moltiplicatisi
esponenzialmente nell’era moderna, solo dalla seconda metà dell’800 fotometri
sempre più precisi hanno soppiantato l’occhio umano nella determinazione della
magnitudine stellare. Prima si procedeva ad occhio nudo con la tecnica di
Argelander. Nel II sec a.C. Ipparco suddivise le stelle in 6 classi di
luminosità (magnitudini) (la figura 24 riporta un estratto medievale dove al
nome arabo ed alla posizione della stella, segue la magnitudine e pure
l’affinità cromatica col pianeta corrispondente). Il metodo di Argelander per
costruire un catalogo stellare che avesse sempre 6 classi di luminosità
consisteva nel confrontare le stelle a coppie. La differenza è una magnitudine
quando le due stelle, al primo colpo d’occhio, sembrano uguali e solo dopo un
certo tempo ci si accorge che una è più luminosa dell’altra; 2 magnitudini
quando le due stelle sembrano uguali al primo colpo d’occhio ma subito dopo si
nota una differenza; 3 magnitudini quando già al primo colpo d'occhio si nota
una certa differenza; 4 magnitudini quando al primo colpo d'occhio la differenza
è ben evidente; 5 magnitudini quando si ha un'evidente sproporzione di
luminosità fra le componenti della coppia in esame. Ripetendo più e più volte
la misura in notti diverse e mediando per un numero arbitrario di coppie si
ottiene un catalogo completo quanto si desidera ed accurato. Va prestata
attenzione al colore delle stelle che può falsare la stima, in quanto l’occhio
umano ha una diversa risposta alle varie frequenze. La risposta massima si ha
intorno al giallo. La fotometria moderna, oltre a consentire l’apprezzamento di
frazioni di magnitudine, ha constatato che il metodo di Argelander rispetta una
legge di potenza. In altre parole l’occhio umano ha una risposta logaritmica. Prof. Lorenzo Brandi |
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