Il contenuto del Sepher Jetsirah la fonte massima della storia e della tradizione d'Israele, la Bibbia, mentre ci sa dire ad esempio che Tubalkain fu il primo fabbro, tace invece sulla questione dell'origine della scrittura, intorno a cui neppure le leggende degli apocrifi sanno illuminarci. (1 il Talmud di Gerusalemme, nel trattato Rosc-Hascianà, ci dice che l'origine dei caratteri ebraici è Assira. Evidentemente però si deve trattare dei caratteri quadrati, giacchè nel trattato Sanhedrin si spiega come Ezra cambiasse la scrittura, la quale ebbe allora il nome di Assira.)
Vedremo più avanti come, secondo uno di essi, il Libro dei Giubilei, già un nipote di Adamo potesse permettersi di trascrivere libri composti dai padri suoi, così che siamo autorizzati a ritenere che nella tradizione isdreaelitica si presupponesse implicitamente la scrittura sorta con il primo uomo, forse per rivelazione divina, insieme alla lingua.

Il Sepher Jetsirah non si preoccupa neppure esso della questione e, quando si decide a porre un dato storico, si trasporta addirittura ad Abrhamo, che discopre i segreti meravigliosi racchiusi negli ierogrammi dell'alfabeto ebraico.

Dobbiamo però, a scanso di equivoci, notar subito un fatto abbastanza curioso. Il Sepher Jetsirah non sospetta neppur lontanamente l'esistenza di linguaggi troppo più ricchi di suoni dell'ebraico, in cui pure poteva avere un esempio vicinissimo, solo che si guardasse attorno, nell'arabo. Con esso invece ci troviamo di fronte a una specie di sciovinismo glottologico per cui si pone come assioma indiscutibile il fatto che la lingua ebraica sia la più perfetta, e sopra tutto che i 22 suoni da essa richiesti siano i soli fondamentali e indispensabili: (1 L'ebraico come tutte le lingue semitiche, non impiega nella scrittura alcun carattere per le vocali, le quali sono state introdotte in un epoca molto tarda e sono rappresentate da un insieme di segni disposti sopra o sotto le consonanti. Tutto ciò è ripetuto nelle note al testo.) dalla varia combinazione di essi possono risultare tutte le parole di tutte le lijngue.
E, concetto forse più interessante, sebbene non esplicitamente accennato nel testo, qualsiasi scrittura di qualsiasi lingua non ha valore in quanto rappresentazione grafica di un insieme di suoni collegati a lor volta ad una data immagine, bensì in quanto è composta in certe date lettere o, meglio, i segni che hanno l'importanza di veri e propri geroglifici. Così che si potrebbe forse inferirne che i vari suoni, prodotti da una trascrizione in ebraico con certi caratteri, possono dare l'idea del grado di divinità di una lingua, la quale sarà tanto più perfetta quanto più nelle sue espressioni si servirà degli elementi che risponderanno all'idea recondita racchiusa nel linguaggio stesso. si può benissimo ricavare tutto ciò dall'esempio sperimentale che ci viene indicato in Abramo, il quale, avendo compreso il vero valore delle lettere, diviene l'amico di Dio, colui che Dio accoglie nel suo seno, comunicandogli la propria santità; diviene, al pari del Formatore supremo,  panglotto ed omnisciente. Quasi che le singole lettere dell'alfabeto ebraico fossero l'espressione di quello stesso linguaggio che Iddio insegnò ad Adamo nell'Eden e la cui comprensione fu persa ai tempi della torre di Babele.

Qualche apocrifo può appoggiare questa asserzione. Il libro dei Giubilei ad es. parla anch'esso di Abramo come del ritrovatore di una tradizione perduta, ma non tratta della scrittura, bensì del linguaggio, dicendo esplicitamente che dalla costruzione della torre di Babele ad Abramo nessuno aveva più compreso l'ebraico, ritornato poi in onore perchè un angelo servì d'iniziatore al patriarca.

Il Sepher Jetsirah ci parla invece dei geroglifici con cui la lingua ebraica ebbe ad espimersi, e non la lingua ebraica sola; simili in ciò agli ideogrammi cinesi che servono a trascrivere lo stesso concetto di qualsiasi dialetto, o alle frece indicatrici delle direzioni, che cique uomini di conque nazioni differenti nominerebbero in cinque maniere, ma che sarebbero da tutti loro perfettamente comprese. potremmo quindi dire che una complessa tradizione istraelitica, di cui una parte resta nel Sepher Jetsirah, ed una nel Libro dei Giubilei, portava che in un passato molto remoto l'umanità fece uso di un insieme di segni i quali per tutti avevano un valore oltre che ideografico anche magico, e corrispondenti per tutti a certi suoni. In un periodo non facilmente identificabile fu perso il collegamento: i suoni, forse per evoluzione, si modificarono, e ogni raggruppamento umano lesse gli stessi caratteri in modi diversi, così che non fu più possibile comprenderli e comprendersi, finchè  un saggio astronomo, medico, enciclopedico insomma recuperò, le chiavi dell'enigma, e, ritrovando il linguaggio unico, potè risalire alle origini  e comprendere i misteri dell'universo, che le parole stesse per essere state mezzo di rapporto fra Dio e l'uomo, racchiudevano, quasi formule mnemoniche, con cui la divinità aveva cercato di sovvenire alla labilià della mente umana.

Leggendo il Sepher Jetsirah, non possiamo fare a meno di distinguere in esso tre parti: una prima che abbraccia tutto il primo capitolo, una seconda che arriva fin quasi alla fine, una terza costituita dal ricordo di Abramo. 

E' inutile fare qui un vero e proprio riassunto del libro, di cui ci contenteremo di seguire l'idea informatrice, quanto mai semplice e grandiosa. In un primo tentativo di schematizzazione, possiamo intanto porre questo: Iddio crea tutto l'Universo per mezzo di tre Sepharim, manifestazione nel principio attraverso le Sephiroth, che, agendo quasi vorrei dire nei limiti da quelli tracciati, sono da essi ben distinte. Dire che cosa di preciso si intenda con queste due parole è cosa non eccessivamente agevole e indiscussa. Dal corso stesso di questa introduzione, e meglio poi dalla lettura diretta del libro, noi ricaveremo la nozione di tre diversi e sucessivi aspetti dell'atto creativo, formanti una scala in cui dall'universale si scende al generale, e da questo al particolare, ossia al fenomeno, la cui immediata esperienza è alla base di ogni conoscenza umana e che dà appunto all'uomo il punto di partenza per rifare all'inverso il cammino percorso dalla potenza creatrice, così da poter arrivare alla comprensione della causa suprema. Questa triplice distinzione rende nel Sepher Jetsirah il nome di Sophar, Sopher, Saphur, Numero, Numerante e Numerato: ossia Numero come concetto astratto, di per sè né esistente né inesistente, perchè inconcepibile  nella sua purezza; Numerante come atto con cui si manifesta e come conseguenza del concetto stesso di Numero; Numerato come applicazione del Numero nella pratica. In altre parole: esistenza di una legge, sua applicazione nella realtà, sua manifestazione nel fenomeno singolo. 

Veramente grandioso è dunque il concetto del S. J.: il celberrimo detto che Dio geometrizza potrebbe ben essere ripetuto qui, giacchè il fondo del concetto dell'autore, sebbene involuto nella stranezza delle espressioni, è riassumibile come segue. 

Iddio, ineffabile scriba, con i successivi atti della creazione, prima ti prepara la materia su cui poter segnare il proprio pensiero, poi, con la formazione dei vari aspetti del creato, compone un vasto alfabeto cosmico, di cui il Sepher ci dà i segni fondamentali, giacchè la conoscenza di essi è sufficiente per poter leggere qualsiasi frase e qualsiasi periodo. Materializzando ancor più il nostro raffronto, potremmo dire che le Sephiroth rappresentano l'apprestamento del materiale scrittorio, il quale deve essere pensato non tanto come un foglio di carta o di pergamena, quanto come un blocco di roccia, simile a quelli che ancora oggi ritroviamo, tutti ricoperti di caratteri cuneiformi; mentre le 22 lettere, nelle loro quasi infinite combinazioni, sono il testo stesso della immensa iscrizione. L'immagine che abbiamo usata, sebbene manchevole per certi particolari, pure è la più adatta ad essere presa come guida per la retta comprensione di un libro, il cui senso recondito, tanto inutilmente torturato da centinaia di interpreti, diviene in questo modo perfettamente chiaro. 

Il pensiero dell'autore del Sepher è dunque il seguente.

Nel nulla il più assoluto, in cui non esiste nè spazio, né tempo, né materia, avviene una prima manifestazione della potenza creatrice che per prima cosa si stabilisce come esistente ed intelligente: lo Spirito del Signore ( la Ruach Elohim), che non ha inizio, perchè, sebbene cominci ad agire in un dato momento, pure esisteva ab eterno in uno stato potenziale, raffigurato dal trono, ossia dalla tranquillità; e che non ha fine per l'assioma stesso, su cui ancora oggi si basa tutta la nostra scienza fisica, che niente si distrugge. Lo spirito si manifesterà successivamente nelle Sephiroth, indistruttibili anch'esse per esser le vie per cui cammina l'energia creatrice, che si irradia attraverso loro sempre più lontano nel seno dell'infinito, e di cui esse vengono dette le braccia, ossia gli strumenti dell'azione alla quale non si possono trovare limiti spaziali e temporali. Così che noi potremmo pensare questa forza creatrice come un sasso lasciato cadere in uno specchio d'acqua che forma in esso onde circolari, le quali si allontanano sempre più dal centro origine, aumentando via via in tutte le dimensioni, anche in altezza, fino a costituire, come in certe condizioni nell'Oceano Pacifico, vere e proprie ondate di entità tuttaltro che trascurabile. 

Lo Spirito agisce subito, dando origine al Soffio, in cui vengono scolpiti i 22 segni di fondamento, concezione questa che può spiegarsi solo pensando che il Soffio, misterioso per sua natura, invisibile e impalpabile è percepito dai sensi soltanto come suono, che nelle sue manifestazioni più semplici, ma indispesabili e fondamentali, si scinde in 22 accezioni, graficamente rappresentate dalle 22 lettere dell'alfabeto ebraico.

I due atti principali della creazione sono compiuti.

Formati poi il Fuoco e l'Acqua primordiali, sorge, prima di proseguire, la necessità della determinazione spaziale, che è ottenuta con le sei delimitazioni, le quali vengono scritte nell'Universo con le varie combinazioni delle tre lettere costituenti il nome ineffebile.  1) Jod Ehe, Vau. La quarta, che è una He è una semplice ripetizione della seconda.

Con audace ipotesi, potremmo arrivare da ciò a spiegare il misterioso tetragramma. Dio che ha prescelto per sé il nome formato dalle lettere Jod, He, Vau, He, ha voluto con questo indicare se stesso nelle sue funzioni di geometrizzatore e di costruttore nel nulla, giacchè ha testimoniato della propria esistenza col darsi un nome che da solo basta ad individuare in tutti i sensi il Cosmos intero. E' lo stesso Sepher che implicitamente insegna ciò quando ci dice che il Creatore, per affermare le sei delimitazioni, ha scelto dai semplici tre segni che sono gli stessi da cui è formato il suo nome.

La prima parte dell'atto creativo si ferma qui

Nello spazio così delimitato i tre elementi cosmici si individuano anch'essi,  prendendo la forma del fuoco, dell'aria e dell'acqua veri e propri, che nella mente dell'autore sembrano esser concepiti come il fondamento costitutivo di tutto ciò che esiste, giacchè i segni a loro corrispondenti vengono detti le Madri, ed esse si trovano nelle tre grandi classi in cui viene diviso il reale: l'Universo, inteso più che altro con esclusione della Terra, l'Anno come tipo del tempo, l'organismo dell'uomo, come forse la più perfetta espressione della vita animale. Ed è qui che si inizia la serie di parallelismi, intesi a riportare al grandioso concetto base di tutta la Cabbala che ciò che è in alto è come ciò che è in basso, giacchè ogni cosa ha la stessa struttura e l'uomo non è altro che la riproduzione in piccolo di tutto il creato.

Le tre Madri pur costituendo il fondo di ogni cosa non agiscono perchè direttamente, giacchè prima danno origine ai Padri, e solo dopo l'intervento di questi possiamo vedere la loro azione. L'impatto non è di agevole intelligenza, e non credo che possa venire spiegato con sicurezza. Per evitare possibili deviazioni, sarà opportuno premettere che la precedenza delle Madri sui Padri  non ha verosimilmente nessun significato recondito: la parola "otijioth", che abbiamo tradotta con segni, è in ebraico femminile, e lo scrittore, data l'importanza da lui attribuita al linguaggio, fu portato a conservare il genere del vocabolo anche nel descriverne le attribuzioni; l'idea dei Padri sarà venuta fuori dall'analogia con quanto avviene per tutti gli esseri viventi, i quali per riprodursi hanno bisogno dell'intevento reciproco dei due sessi. Credo che questa e non altra sia la spiegazione del fatto, che poi ha un'importanza relativa, giacchè mai i Padri si vedono agire direttamente.

La creazione sefirotica si ripercuote nel mondo dei fenomeni che sta formandosi. Come nell'infinito vuoto si è creato, se non una materia, il concetto almeno di questa materia,  portando di necessità una delimitazione dello spazio, così nel mondo abbiamo il sorgere della materia primordiale, per mezzo della quale sono possibili le tre grandi manifestazioni dell'essere, e noi vediamo porre le coordinate e le ascisse che devono individuare ogni forza di vita, rappresentate dalle sette doppie
Il confronto, che potrebbe a prima vista sembrare infondato, data la poca esattezza con cui vengono dati i corrispondenti di queste lettere (Vita, Pace, Scienza ...), è fatto dal libro stesso che insegna: "Sette Doppie ... conformemente a sette delimitazioni, deteterminate dalle sei delimitazioni ...". 

Ogni misura è positiva e negativa, ed infatti le lettere in questione sono doppie, non solo per la loro pronunzia forte o tenue, ma anche ed appunto perchè sono l'espressione grafica di questo concetto. Le Madri e le Semplici non hanno tale duplice valore perchè, corrispondendo le prime ai tre elementi e le seconde ai fenomeni, non se ne può concepire il contrario, a meno che per contrario non si voglia intendere la loro inesistenza, il chè non avrebbe senso. 

Terminato così anche il secondo momento della creazione, arriviamo al terzo, per cui con la guida delle dodici Semplici arriviamo nel dominio della specializzazione fenomenica, nel quale il pensiero dell'autore può così facilmente esser seguito da non richiedere nessun accenno preparatorio.

Per tal modo le 22 lettere dell'alfabeto ebraico sono altrettanti ideogrammi che esprimono i 22 aspetti fondamentali del Creato sensibile, mentre le dieci Sephiroth, ossia i concetti di numero (si pensi che l'ebraico, come il greco e il latino, non aveva segni particolari per indicare i numeri) sono l'espressione del mondo non soprannaturale, ma concettuale, del mondo dell'astrazione e dei principi. Le conseguenze di ciò sono immense: basterà conoscere e fare tutte le combinazioni possibili con queste lettere per avere l'espressione grafica di tutte le possibilità, e, se vi sarà un uomo capace di farlo, comprendendo il valore di ogni segno, mentre dall'altra parte sappia ridurre a tale espressione grafica qualsiasi manifestazione naturale,  quest'uomo avrà la scienza perfetta,  saprà ogni cosa e potrà ogni cosa. Anche potrà,  perchè le lettere non sono solo l'immagine di qualche cosa,  bensì sono anche la cosa di per sé. 

Per continuare il nostro paragone materiale, potremmo dire che, se Iddio creando non ha fatto altro che scrivere un immenso libro, l'uomo può copiare in un libro più piccolo, ma che contiene le stesse cose: tutta la differenza è nel formato. E che cos'è l'uomo stesso se non un insieme di caratteri raggruppati nella scrittura di una parola del libro divino? Chi saprà leggere tale parola e con essa saprà leggere le altre costituite da tutti gli esseri e da tutte le cose, otterrà un senso che gli darà la chiave dell'universo, rendendolo simile a Dio quanto alla conoscenza. La frase del genesi: "Voi sarete simili a dei" potrebbe esser data per motto a questo libro, che si chiude con l'indicare un esempio di applicazione pratica in Abramo il quale, resosi padrone del segreto contenuto nelle "Ventidue cose" costituenti "un corpo solo", fu accolto nel seno del Signore, che strinse perpetua alleanza con lui. 

Si capisce dopo ciò l'importanza che ha la scrittura; ed è in questa dottrina - di cui forse il Sepher Jetsirah non è che uno dei tanti documenti che avrebbero potuto pervenirci -esponente magari a sua volta di antiche tradizioni diffuse in tutto il mondo, che dobbiamo ricercare le origini di tutti gli amuleti, di tutti i pentacoli, di tutte le parole misteriose, e magari di tutte le immagini. 
L'uomo, mettendo insieme alcuni segni, riproduce sulla pietra, sulla cera o sulla pergamena l'opera stessa di Dio, minore in formato, ma identica potenzialmente; e siccome tutta insieme la creazione non è che un immenso periodo e Dio ne è il padrone perchè ne capisce il senso, basterà poter arrivare ad impadronirsi di tale senso per comprendere a nostra volta l'intima ragione di essere  delle cose, ossia per dominarle,  come il meccanico domina la macchina di cui conosce gli ordigni, lo scopo e la necessità, anche se prima ne ha studiato solo i modelli ridotti, o, per avvicinarci di più al nostro caso,  i diagrammi. 

E' questa idea, di cui magari la mente umana non aveva neppure coscienza, che ha voluto spingere in un passato remoto alla composizione delle svariatissime svastiche che ornano i monumenti antichissimi di tutto il mondo, che ha spinto a vedere nella disposizione delle stelle nel cielo strane figure che non si capirebbe davvero come potessero esservi ravvisate, specialmente da menti ingenue e primitive; è a questa idea che noi dobbiamo sopra tutto i tarocchi, quel vecchissimo ricordo della scienza egizia. 

Stabilito una volta per sempre il principio che è alla base del Sepher Jetsirah,  è agevole comprendere la possibilità dello svolgimento di tutta la Cabbala esoterica, divien chiaro come già nei tempi talmudici si potesse pensare che la Legge ha svariati e quasi infiniti sensi, si capisce la ghematria, si capiscono tutte le parole che servono nei rituali di magia per gli scongiuri verso le potenze ultranaturali, si capisce il pensiero che la recita di certe formule possa guarire dalle malattie, che il portare pezzetti di pergamena con sopra scritte alcune precise parole possa guardare dai pericoli dei viaggi, o il tracciare segni misteriosi sulla parte lesa possa guarire dalle morsicature dei cani arrabbiati. Tutto ciò è superstizione, secondo i propri individui di buon senso che affliggono oggi questa povera umanità: tutto ciò è invece una forma di tradizione e in molti casi di alterazione popolare di un principio della cui giustezza ed attendibilità nessuno scienziato odierno vorrebbe testimoniare,  e non perchè non possa rispondere alla verità, almeno nel suo principio fondamentale, ma perchè le conoscenze a dosi omeopatiche e ultra - specializzate dei nostri giorni impediscono di poter fondere la scienza intera in un tutto unico ed armonico.
Gli antichi sapevano far questo ed erano arrivati a numerose conclusioni che tutte furono derise da un'umanità la quale credeva di esser progredita quando era ritornata a dovere, come i bambini, toccare tutto, esperimentare tutto, perchè tutto ignorava, ma che una alla volta tornano ad imporsi alla così detta scienza ufficiale, prima come ipotesi, poi come certezze. Il magnetismo, l'ipnotismo, lo spiritismo, il radio possono dire qualcosa: verrà la volta anche delle concezzioni filosofiche e metafisiche, che torneranno indubbiamente a trionfare quando si sarà ritrovata la chiave delle loro espressioni. 

Resta ancora da fare una osservazione. 

Il Spepher Jetsirah, che pure si occupa con tanta minuzia delle parti del corpo umano, passa sotto silenzio tutto ciò che riguarda la rimanente vita animale e vegetale della Terra. Le ragioni, di questo silenzio sono misteriose: il primo capitolo del Genesi parla invece di tutto ciò, e non si riece a capire come l'autore del nostro libro abbia trascurato così completamente un elemento che avrebbe potuto permetterci di comprendere meglio la sua cosmogonia e il posto da esso assegnato all'Uomo nell'Universo, e forse anche di precisare la data della composizione e le fonti da cui è stata tratta.
Credo che il miglior partito sia quello di seguire il nostro testo e di dimenticarci completamente che sulla Terra non esiste soltanto l'Uomo, per rivolgere invece la nostra attenzione a quelli che per il Sepher sono i rapporti fra l'umanità e Dio. 

Qual'è allora l'idea del divino che troviamo nel Sepher Jersirah? Dobbiamo dire subito che essa non corrisponde se non in minima parte al concetto tradizionale dell'ebraismo profetico, passato poi al cristianesimo di un Dio assolutamente distinto e ben diverso dalla natura, di cui è l'artefice e il padrone. Diverse espressioni del Sepher possono consolidare ciò. Il nome più usato per indicare le facoltà creatrici dell'Essere Supremo è quello di Jotser, che, interpretato, deve essere reso con la parola formatore: Dio dunque non crea nel senso che oggi si attribuisce a questa parola, bensì dà una forma a qualcosa. Intendiamoci però; questo potrebbe indurre a pensare ad un dualismo più o meno larvato, ma non è così. 

La lingua ebraica non ha termini che possano rispondere al nostro concetto di creazione, ed è costretta a far uso di espressioni di cui nessuna ha l'intensità della nostra. ma se anche nel primo versetto del Genesi noi troviamo che Dio bara il cielo e la terra, ossia piuttosto compose che creò, resta sempre da notare l'uso non comune della parola Jotser, riportante ad un concetto che non è precisamente l'ortodosso. si direbbe che il S.J. abbia di Dio un'idea sui generis, tale che permette di pensarlo come artefice di ogni cosa, mentre egli stesso ne è il substrato, giacchè la materia prima, gli elementi cosmici vengono tutti per produzione dalla prima manifestazione divina, lo Spirito della Santità. quello che nel Genesi è la Ruach Elohim

Siamo forse allora davanti ad una dottrina panteista? E' la prima cosa da escludere: Dio è sì in fondo al tutto, ma come ragione di essere, non che questo tutto ne partecipi l'essenza. in altre parole, il Sepher è il libro delle cause, di cui la principale è la prima manifestazione intelligibile di un divino che la mente umana e le facoltà ragionatrici possono avvicinare fino a questo punto, dopo il quale è il mistero più assoluto. Siamo in una serie di perchè dei perchè che possiamo risalire fino alla sua prima espressione, la ragione della quale sta in un qualcosa di ineffabile, che trae la sua ragione esclusivamente in se stesso per una tautologia non solo inesprimibile, ma incomprensibile. L'unico e migliore commento che possa farsi alle dottrine del Sepher è riavvicinarle a quello che è detto in un vecchio libro egiziano, non ancora abbastanza studiato e compreso, il "Libro dei Morti", il quale al cap. XVII porta le seguenti parole che cito da "Frammenti di Storia dell'Astrologia" di Edg. Baldi (Milano, Sonzogno, 1919, p. 26, nota 2): "Io sono colui che apre e chiude e sono unico. Io sono Rà ... io sono il grande Iddio che crea se stesso, i suoi nomi costituiscono il ciclo divino, egli è onnipotente fra gli Dei ... Io ... sono l'oggi e conosco il domani"

Dante stesso sembra aver conosciuto qualche dottrina simile quando nel Paradiso (XXIX, 16-24) dice:  

 

" In sua eternità di tempo fuore

Fuor d'ogni altro comprender, come i piacque,

S'aperse in novi amor l'eterno amore.


Né prima quasi torpente si giacque;

Che né prima né poscia procedette

Lo discorrer di Dio sovra quest'acque.


Forma e materia, congiunte e purette, 

Usciro ad esser che non avea fallo, 

Come d'arco tricorde tre saette ..."

Contunuando (v. 28-36):

 

" Così il triforme effetto dal suo Sire

Nell'esser suo raggiò insieme tutto,

Senza distinzion nell'esordire.


Concreato fu ordine e costrutto

Alle sustanze; e quelle furon cima

nel mondo in che puro atto fu produtto.


Pura potenza tenne la parte ima;

Nel mezzo strinse potenza con atto 

Tal vime che giammai non si divima".

 

Anche qui abbiamo una distinzione fra quello che è una potenza di creazione pura, astrazion fatta da tutto ciò che potrebbe essere concesso di forma, di spazio e di tempo, da quello che è l'applicazione in atto di questa potenza. Ma il pensiero stesso creativo non poteva sussistere senza riferimento ad una qualche delimitazione, e noi sappiamo da Dante che forma e materia riceverono contemporaneamente la loro attuazione, senza che si potesse distinguere minimamente quale delle due avesse cominciato per prima ad esistere.

Il Sepher Jetsirah, in termini diversi, dice la stessa cosa. Conobbe Dante il nostro libro? I dantisti e i teologi, se sentissero una domanda come questa, salterebbero su spiritati: Io so la dottrina di quei versi è cristiana cattolica apostolica romana;  ma so anche che spero di riuscire in un altro scritto a dimostrare come l'Alighieri non ignorò ciò che per intenderci chiameremo la Cabbala, e come anzi tutta la Divina Commedia non sia altro che un enorme grimoire, il cui senso non fu compreso neppure dai contemporanei i quali si abbandonarono alle interpretazioni esclusivamente teologiche,  dimenticando che con esse si rendono più oscuri e perfettamente inutili non pochi passi di un poema in cui la struttura rigidamente matematica e il costante parallelismo non ammettono inutilità. Del resto credo che,  con un po di pazienza, si potrebbe benissimo commentare il  Sepher  a forza di citazioni dalla sapienza medioevale, le quali riuscirebbero così la migliore storia della sua fortuna e potrebbero dare importantissimi documenti in favore della sua antichità: lavoro però che attende ancora chi ne getti le basi e non può essere opera di un uomo solo. Noi dobbiamo contentarci di cercare un po' di luce attraverso le tenebre di un libro tanto strano: ho creduto di aver acceso un fiammifero; coloro a cui non bastasse tirino fuori i riflettori e frughino loro nel buio.


L'età del  Sepher Jetsirah.

 

 Chi è l'autore del Sepher Jetsirah?  Moltissime edizioni portano al principio una breve dichiarazione, in cui si afferma che appunto ad Abramo si deve tutto l'insegnamento: egli l'avrebbe trasmesso oralmente ai suoi discendenti, finchè, arrivati ad un punto critico della storia d'Isdraele forse ai tempi di Antioco Epifane, forse ai tempi della conquista Romana, i saggi di Gerusalemme, temendo che un tanto isieme di dottrine andasse perduto, decisero di affidarlo alla scrittura. così che il libro, pur risalendo per il concetto ad una tradizione iniziatica che farebbe capo ad Abramo, gli sarebbe nella sua forma recensionale molto posteriore, dovendo essere riportato a quel periodo che va dalla profanazione del Tempio per oprera di Antioco IV Epifane (168 a.C.) alla distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), o più verosimilmente fino alla costituzione di quella scuola di dottori che si radunò ad Jabnek sotto la presidenza di R. Johanan ben Zaccai e che fu la madre di tutte le scuole consimili, i cui resoconti verbali, se così mi posso esprimere, formarono in seguito il Talmud. 

L'incertezza è grande, ma credo che convenga contentarsene, accettando così in buona parte un'opinione tradizionale, che non vi è nessuna buona ragione per contraddire, quantunque non sia certo mancato chi abbia voluto vedere nel  Sepher Jetsirah la produzione di testi molto posteriori. 

La base di tutte le discussioni è sempre l'attendibilità o meno e il senso che si deve dare a certe parole del Talmud. Tutto il resto è di scarso valore probativo e neppure l'esame delle idee filosofiche e lo studio della lingua possono portare la benchè minima luce. (1 il fatto di trovare citazioni della bibbia, anche dei libri più recenti, non significa nulla: può trattarsi di una specie di rincalzo voluto dare dal redattore alle proprie idee o di interpolazioni dei copisti. ) Si è osservato ad esempio dallo Zunz che nel  Sepher si trovano di quando in quando parole che egli chiama ebraismi posteriori, quali "alakson, che abbiamo tradotto con delimitazioni diametrali, e la cui origine greca è manifesta, così da poterci indurre a far discendere di molto nei secoli l'epoca della compilazione del libro. A questa obiezione risponde con molta ragionevolezza il Goldschmidt che nessuna di qusete parole ha l'aspetto di essere posteriore ai tempi di Cristo, e che ben poche sono quelle quali non  si ritrovino nel Vecchio Testamento, in cui del resto incontriamo quasi sempre forme parallele.

Altre costruzioni ed altre forme verbali sembrano tolte dalla Pesiqtà, (2 è una raccolta haggadica che pare possa ritenersi una collezione di prediche per il sabato.) ma può darsi benissimo che il caso - dice sempre il Goldschmidt - sia perfettamente tutto il contrario,  niente vietando che si tratti di voci di uso comune da tempo (si pensi che già ai tempi di Cristo l'ebraico classico non era più compreso) passate in tutte e due le opere.

Il modo stesso invece con cui sono trattati nel Sepher certi concetti può essere una prova indiretta della sua antichità.  Le Sephirot non sono idea esclusiva del nostro libro, che è noto lippis  et tonsoribus che esse formarono la base di tutti i sistemi teologico-metafisici-gnostici e delle costruzioni cabbalistiche, filiazioni esse più o meno dello gnosticismo trasportato nel canto ebraico. Ebbene, il Sepher Jetsirah  se ne sbriga in poche parole, senza mai attribuire ad esse tutta l'importanza che assunsero nelle arruffate concezioni della Gnosi, per modo che questa può avere avuto nozione di quello, se non quello di paternità con essa. Uno scrittore che avesse tolto la sua ispirazione tra le correnti gnostiche, eccettuate quelle primitive Irano-caldaiche, la cui origine si perde nella notte dei tempi, sarebbe stato trascinato alla costruzione di uno dei tanti alberi sefirotici,  di comprensione tutt'altro  che agevole,  basati quasi sempre su inutili logomachie e riposanti sopra inaudite sottigliezze di parola e di pensiero. Nel Sepher invece, noi possiamo benissimo ignorare il significato preciso del vocabolo, ma comprendiamo il semplicissimo concetto informatore delle sue funzioni. 

Per giunta vi è un fattto a cui, sulle tracce del Derenbourg, richiama il Castelli ("1 il commento di Sabbatai Donnolo sul libro della creazione". Firenze, Lemmonier 1880) Nel Sepher non si trova mai il benchè minimo accenno ai segni vocali, il cui valore pure tanta parte degli studi dei cabbalisti più tardi; così che un fatto tale basta da solo a non far risalire il libro altro che all'epoca dei Ghronim. Ma quest'epoca è molto tarda ed abbastanza estesa nel tempo, (2 abbraccia il periodo che va dal 638 al 1038. anche assegnando qui il libro a quest'epoca, il problema è quindi tutt'altro che risolto, rimanendo sempre una grande incertezza, nonostante che il limite possa ridursi di circa 200 anni, viste le date dei commenti che ne possediamo!)  giacchè ad esempio il gaon R. Haji ben Scerira è vissuto dal 969 al 1038, periodo a cui non è possibile riportare la compilazione del nostro libro, tanto più che i segni vocali erano in uso già da secoli e avrebbero dovuto preoccupare il nostro autore, anche senza bisogno di arrivare all'epoca gheonica. 

Così che a noi per una determinazione non restano che i dati tradizionali. Qui cominciano le più gravi discrepanze tra i dotti. 

Il Talmud gerosolimitano, il più antico, nel trattato Sanhedrin, cap VII  a un passo che da solo basterebbe a testimoniare dell'antichità del nostro libro. ecco il passo nella traduzione del Castelli: "diceva Rabbi Jehoshu' a figlio di Hananjà: io potrei per mezzo del libro Jeziràh prendere zucche e meloni e farne cervi e caprioli". Rabbi Jehoshu'a è uno dei più antichi Tanajm, essendo vissuto nel I secolo; se non che le parole  per mezzo del libro Jeziràh, come dice il Castelli, non si trovano in nessuna edizione e nemmeno nell'unico manoscritto che possediamo, e sono dovute ad una falsa citazione del Franck nel suo volume "La Kabbale" (Paris Hachette 1843 p.76).

E il Castelli vuol dimostrare anche la insufficienza dell'altra prova addotta pure dal Franck e tratta sempre dallo stesso trattato, nel passo in cui è scritto che "R. Hanina e R. Oscia' Ja ogni vigilia di sabato si radunavano per meditare sul Libro della Creazione e creavano un vitello di tre anni che serviva loro di nutrimento";  facendo osservare che solo in un codice della Laurenziana di Firenze si legge "Libro della Creazione", mentre tutte le edizioni e tutti gli altri manoscritti hanno "Regole della Creazione". 

A dir vero questa volta l'obbiezione è meno felice, perchè il Castelli stesso poco dopo mostra in un passo parallelo della medesima opera il curioso esempio in cui avviene una perfetta inversione dei termini nelle due parti. Va bene che il Castelli con la sicurezza critica dovuta alla incomparabile dottrina tenta ancora il salvataggio della sua obiezione: sta di fatto che essa non è seria, poco importando quale parola precisa debba essere qui adottata, importando invece moltissimo il fatto che in questo passo sia alluda proprio, come il Castelli stesso confessa, a regole taumaturgiche, secondo le quali quei due dottori talmudici pretendevano di operare un miracolo," cosa che conviene benissimo, nonostante il contrario avviso del dotto ebraicista, al Sepher Jetsirah, il quale vuole appunto essere una guida alla fabbricazione di miracoli, dato tutto ciò che abbiamo esposto nella parte precedente. 

Se il Sepher non avesse una certa antichità, non si spiegherebbe come potesse essere sorta, secondo certe fonti, l'attribuzione della sua compilazione a R. Akiba (morto 155 d.C.), né, se dobbiamo farlo risalire almeno all'inizio dell'epoca dei Gheonim, come mai lo troviamo subito venerato come proveniente da Abramo dal suo commentatore Sabbatai Donnolo di Oria in Puglia, vissuto nella prima metà del secolo X. 

La leggenda già da lunghissimo tempo attribuiva ad Abramo un insegnamento esoterico, il cui inizio veramente non si ferma proprio a lui, ma può farsi risalire anche più addietro, come mostreranno le poche citazioni seguenti, tratte dal Libro dei Giubilei. 

Nel cap. 8 si dice che Ghenan (Cainan, secondo LXX) figlio di Enos e nipote di Set, trovò, scolpito su rocce, un trattato di astrologia dovuto ai padri, che egli trascrisse in segreto. Vorrei far notare quelle oscure parole ai padri.  Chi sono costoro? La genealogia di Ghenan è breve, giacché più la dei suo bisnonno, che era Adamo, non si può andare, e verosimilmente nelle intenzioni dello scrittore non è certo ai tre uomini che hanno preceduto il suo eroe che si può attribuire il trattato. Dovremo forse vedere qui un qualcosa di simile ai padri proceduti dalle madri di cui è parola nel Sepher Jetsirah? O il problema è più semplice, non essendo quelle parole niente altro che una specie di formula quale infatti ritroviamo ogni tanto? 

Nel cap.10, Noè trascrive un libro di medicina  che trasmette al figlio Sem prima di morire; e finalmente nel cap 12 troviamo Abramo. 

Questi, il cui nome non era ancora mutato in Abrahamo, emigrato con suo padre Tare nella terra di Haran, vi studiò l'astronomia e la metereologia, arrivando per mezzo di queste scienze alla nozione di un Dio fattore e regolatore di ogni cosa, di cui fece il suo Dio. Allora un angelo venne a lui per mostrargli tutta la terra, per benedirlo e per insegnargli la lingua stessa della creazione, ossia la lingua ebraica, che nessuno più conosceva dal tempo della confusione delle lingue; di guisa che Abramo poté leggere quei libri che gli antichi padri avevano scritto in tale lingua.

Nelle raccomandazioni di Abrahamo al figlio Isacco, vediamo che il patriarca, per avvalorare le proprie parole, si serve della citazione dei libri dei padri, e di quello che hanno detto Henoch e Noè; così come vedremo Giacobbe sul letto di morte consegnare al figlio Levi (il capostipite della tribù sacerdotale, si noti) i libri suoi e quelli dei padri. Come i libri in questione avrebbero potuto salvarsi dal diluvio ce lo dice il Libro di Henoch salvo (cap. 35), che per bocca di Henoch stesso profetizza che essi saranno salvi, perchè hanno per patrono Michele e per custodi Arioch, Marioch, Ariukh e Pariukh e li preserveranno dalle acque. 

Ora il Libro dei Giubilei è certamente anteriore ad Erode il Grande, e più probabilmente può essere riportato ai tempi di Ircano I (135-104 a.C.), così che già allora noi abbiamo testimonianze più una leggenda in piena fioritura, di cui sono noti e curati anche i più piccoli particolari. Ma queste credenze diffuse per tutta la Giudea, non potevano restare campate per aria, e, come per la leggenda di Henoch noi troviamo svariati tentativi di giustificazione documentaria pervenuti fino a noi nelle numerose recensioni degli scritti attribuiti a quel patriarca, il cui ricordo di uomo straordinario echeggia perfino nel Nuovo Testamento; così per Abramo dovè avvenire altrettanto,  e non c'è alcun bisogno di arrivare alle epoche in cui si è già definitivamente chiusa la redazione dei due Talmudim per poter far sorgere un'opera quale il Sepher Jetsirah, chè anzi se non proprio questa, almeno un altro libro consimile attribuito ad Abramo dov'è sorgere, se non era già sorto, verso l'epoca della compilazione del Libro dei Giubilei. Ed infatti abbastanza diffusa fu tra i commentatori ebrei del Sepher la credenza che vi fossero due opere con lo stesso titolo, una dovuta anche come forma ad Abramo e perduta; una rifatta sulla tradizione da R. Akiba. Ma cosa vi sarebbe di strano se il Sepher Jetsirah fosse addirittura, proprio come vuole la più diffusa tradizione, niente altro che la trascrizione di una dottrina esoterica, da lungo tempo trasmessa oralmente e collegata forse simbolicamente al nome di Abramo, di cui anche il compilatore del Libro dei Giubilei potrebbe avere avuto notizia? Niente si oppone a quest'ipotesi e lo abbiamo già detto: gli ipercritici sono padroni di dimostrare tutto ciò che vogliono; finchè si contenteranno di negare senza dare nessuna documentazione positiva, non vi è ragione di abbandonare le vecchie voci tradizionali, tanto spesso disprezzate in principio e tanto spesso fin troppo veritiere. 

L'ostinazione dei critici è tanto più curiosa quando si pensi a tutte le corbellerie che sono ingozzate come verità sacrosante intorno a Pitagora, le cui dottrine hanno tante somiglianze con quello che è detto nel Sepher. è stato sì sfrondato molto intorno a Pitagora e alla sua scuola, ma nessuno osa mettere in dubbio che un dotto di quel nome non sia esistito e non abbia professato su per giù quella data filosofia; e tutto ciò sulla fede di una tradizione che, nonostante le affermazioni dei presunti discepoli, ha la stessa precisa attendibilità di quella dei Sette Re di Roma. Forse Pitagora deve essere più simpatico perchè ha dalla sua una minore antichità e una collezione di citazioni latine e greche, mentre Abramo ha la disgrazia di essere un nome più antico e - orrore degli orrori! - biblico. Intanto Pitagora è morto senza che nessuno, salvo i filologi e i filosofi tedeschi. se ne sia eccessivamente preoccupato, mentre Abramo ha lasciato dopo di sé un intero popolo a chiamarlo Padre!

Alcuni cabbalisti hanno trovato nel Sepher stesso un elemento interno in favore della sua antichità nel patto del VI capitolo, in cui è detto: "il Dragone nell'Universo come un re nel suo trono; la ruota (o Zodiaco) nell'Anno come un re nella sua città; il Cuore nell'Uomo come un re in guerra". E' evidente che il primo paragone è fatto per suscitare l'idea di una stabilità immutabile, ossia per indicare l'unico punto che rimanga fisso nell'Universo, il perno di tutto l'immenso roteare dei globi celesti. nelle epoche lontane di una protostoria dell'umanità il moto apparente della volta stellata fu certo quello fra i fenomeni celesti che più attirò l'attenzione, come del resto prova il secondo paragone che nel nostro testo vien subito dietro, in cui è detto che lo Zodiaco si muove nell'Anno come un re nella sua città; determinando quindi con tale movimento la successione delle stagioni.

Il perno di questo movimento apparente, per noi del XX secolo, è, e lo sanno anche i bambini delle elementari, la stella detta perciò Polare (alfa dell'Orsa Minore); ma non è stato sempre così, giacché la Terra, oltre a tutti gli altri suoi movimenti, è dotata di una lentissima vibrazione del proprio asse, il quale, in un periodo approssimativo di circa 25.000 anni (hanno platonico), descrive un cono il cui vertice è al polo sud, e la cui base è segnata dalle successive posizioni del polo nord. Fra le svariate conseguenze di ciò, oltre al necessario spostamento delle stagioni, vi è anche quella del cambiamento continuo del polo nord celeste e quindi delle stelle che con la loro vicinanza ne permettono l'identificazione anche al profano di astronomia, servendo di appoggio per gli orientamenti.

Tutto questo lavorio astronomico diventa interessantissimo per il nostro caso, quando si sappia che fra il  3000 e il 2000 a.C. la Stella Polare non era Alfa dell'Orsa Minore, ma Alfa  del Dragone, altra costellazione. Ora, secondo i calcoli del Maspero,  Abramo sarebbe stato contemporaneo del re babilonese Chammurabi, fiorito nel 2200 circa a.C. così il Sepher Jetsirah, anche riportandone la redazione a tempi più moderni, ci conserverebbe veramente le tracce di una dottrina iniziatica antichissima, la cui epoca si rivelerebbe in un paragone mantenuto senza comprenderne l'importanza, anzi forse perché non se ne capiva più il significato. 

L'ipotesi è seducente ed elegante, come del resto abbastanza verosimile. Si obbietterà forse che ai tempi addirittura mitici a cui si farebbe così risalire l'inizio della nostra tradizione, la costellazione del Dragone poteva non esser nota con questo nome? Anche l'obbiezione che si farebbe così sarebbe sempre un'ipotesi campata in aria. La scienza del cielo babilonese, era astronomia e non astrologia, come qualcuno potrebbe pensare, conosceva quasi tutte le nostre stelle (meno naturalmente le telescopiche) e le aveva raggruppate in costellazioni, in un sistema passato, nomi compresi, a tutto il mondo antico, che accettò ad occhi chiusi la vecchia sapienza caldea, alterandola qualche volta in peggio sì, ma non aggiungendovi niente di suo. Tanto più che la parola del testo ha dato non poco da fare ai suoi commentatori ebrei, di cui nessuno sa interpretarla con precisione, pur restando però tutti d'accordo che tali corrisponde all'incirca al drago e sta per indicare un qualcosa che si trova nel cielo. La più ovvia spiegazione è che si tratti appunto di un vecchio nome astronomico, di cui sia stato smarrito il senso preciso.

Noi anzi potremmo con l'ipotesi su esposta spiegare anche qualcosa che, qualora si osservi bene, è piuttosto incomprensibile. Parecchi astrologi Medioevali hanno fatto uso di una curiosissima espressione a proposito dello Zodiaco, che nel suo insieme hanno chiamato dragone; e anzi alcuni di loro, spingendo più oltre le cose, hanno fantasticato di due dragoni, assegnando loro rispettivamente la metà delle 12 costellazioni zodiacali. Idea strana e inspiegabile, a meno che, a mio avviso, non si ricorra per comprenderne l'origine proprio al Sepher Jetsirah,  o almeno alla tradizione da esso rappresentata, In luogo di vedere nel paragone del Sepher una filiazione della stramba dottrina dell'età di mezzo, come vorrebbe il Castelli. 

Astrologia e scienza cabalistica hanno sempre proceduto di pari passo, e siccome la Cabbala, che si era appropriata il nostro libro, portava immediato ricordo di un Dragone di cui in qualche testo si sapeva esser dette cose singolari, è più che giustificato supporre che gli astrologi, perduto una vota il valore reale degli antichi insegnamenti, abbiano voluto fantasticamente ricostruire quel Dragone tanto importante e si siano trovati costretti a tirare in ballo lo Zodiaco e i suoi movimenti, unico dei fenomeni celesti di cui potessero in qualche guisa rendersi ragione. 

Ma non insisteremo più sulla questione,  lasciando ognuno arbitro di concludere nel senso che gli sembrerà più opportuno, perchè, tanto, i filosofi sorrideranno lo stesso, gli astronomi si metteranno le mani nei capelli, gli storici alzeranno le spalle disdegnosi mentre c'è il caso che qualche benevolo lettore ed il sottoscritto corrano il rischio di esser rinchiusi in una di quelle case dove la scienza moderna confina tutto ciò che la sorpassa e comunemente vengono dette manicomi.

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