SOMMARIO: Il Dies Domini e la Bibbia — Il serpente tentatore — Antichità della genesi — Gli Alchimisti e il Paradiso Terrestre — Che cosa si proponeva l’Alchimia? — Il Farmaco Cattolico — 11 simbolo del serpente presso i vari popoli — L’arcano alchimico e il suo segreto — L’Alchimia e la chimica moderna — Remote origini dell’Alchimia — I veri e i falsi alchimisti — La trasmutazione dei metalli vili — Fausto e l'Elisir di lunga vita — Il Liber Mutus — Nicola Flamel e la sua storia — Il Filet d’Arianne — Oscurità di tutti gli scrittori alchimici — Il pro­blema della ricostituzione della materia cosmica — Il Grande Arcano Alchimico risponde al rinvenimento della radice del mondo animale? — Basilio Valentino e l’Antimonio — La leggenda di Raimondo Lullo — L’in­dipendenza della Scuola Ermetica Italiana nell’esame degli antichi miti — Il nostro non credere in materia di investigazione scientifica — Rai­mondo Lullo e la sua Ars Magna — La trasmutazione dell’uomo animale in uomo divino — La Pietra Filosofale ed il segreto dell’evoluzione magica dello spirito dell'uomo — La incredulità verso le vanterie umane — Che cosa pensava dell’Alchimia un alchimista italianissimo — Il Filarete dice che bisogna far l’oro con prudenza — Il Grande Arcano dà il modo al­l’uomo di eternarsi per Avatar? — Il Farmaco Cattolico permette la rea­lizzazione della Medicina Ermetica?

 

Discepolo. — Io credo questa volta che l'amico simpatico Saturno non verrà a interrompere i nostri discorsi. E' Domenica, giorno di sole, cristianamente...
Giuliano. — Cristianamente è dies domini, la giornata del Signo­re, il Signore di tutte le cose. Geova? Giove? Pan? Giornata di riposo. Non si deve lavorare in omaggio al Creatore che lavorò sei giorni e al settimo riposò. Così dice la Bibbia, che gli Ebrei scaraventarono sulla vasta, immensa grandezza della civiltà di Roma. Non sappia­mo se la sublime sciocchezza della creazione di un mondo come questo che vediamo e viviamo, sia stato un bene largitoci o un er­rore divino. Certo, se è libera la critica, potrei permettermi di dire che un creatore onnipotente, vecchio, barbuto, pieno di esperienza, avrebbe potuto produrre qualche cosa migliore. Creò l’uomo, re o dio minore delle cose fatte, e non ricordò e non previde che non doveva fargli crescere, a portata di mano, con rami frondosi e carichi di po­mi pericolosi, quel tale albero che tutti sanno, e non doveva aver creato il Serpente che alla vista di Eva cominciò a ciarlare come le domestiche al mercato.

Discepolo. — Dunque parliamo del serpente? E la Medicina Er­metica riposa anche oggi? Vedete, caro signor Giuliano, che io non mi sono allontanato dal vero dicendovi, fin dal cominciamento, che queste così dette scienze occulte sono levigate e unte come le anguil­le che acchiappate per il corpo o per la coda vi sfuggono con rapidi­tà insospettata. Lo scopo delle mie visite, un po’ laboriose per voi, è principalmente dedicato ad apprendere gli elementi, didascalica­mente esposti, di questa Scuola Ermetica che mi pare rassomigli mol­to a quall'Araba Fenice che tutti vogliono vedere e che nessuno ha mai incontrato. Voi mi dite che le vostre sono scienze che non s’in­segnano coi metodi ordinari, e che gli elementi dell’Ermetismo Ma­gico si indicano all’allievo come in un’analisi preparatoria di una sintesi finale. Allora mi fermo all’argomento della Medicina Erme­tica, e anche da questo soggetto scaturiscono divagazioni che ci por­tano alla critica della creazione e al serpente che ha da fare con que­sta Medicina come l’ippopotamo con la Monaca di Monza...

Giuliano. — Opinione sbagliata la vostra. Stamane, perchè festa, avete dimenticata la saliera, e prendete nel senso letterale la mia po­co riguardosa critica alla Genesi. La quale, prima di essere ebrea, dovette appartenere agli Egizi ed ai Caldei. Tutti gli alchimisti, ita­liani, stranieri, di tutto il mondo, si sono fermati all’entrata del Pa­radiso Terrestre per vedere un po’ se il Creatore aveva fatto bene o male a far crescere ed irrobustire un albero tanto sospetto in prossi­mità di Eva e di Adamo, mentre il Serpente era sempre pronto per dire ai campioni dell’uman genere: Ma perchè state lì a far niente e non mangiate? L’alchimia non è solamente la madre venerabile della moderna chimica — ne divenne madre per caso, come Rea Sil­via di Romolo e Remo — ma in epoca in cui non si poteva parlare di certe cose senza passare per eretici, l’alchimia volle parere una scienza che andasse in cerca di un procedimento per mutare tutti i ferri vecchi in barre di oro, per arrichire e far felice tutta la cristia­nità... L’oro non è mai stato argomento ereticale in nessuna religio­ne! E l’essenza alchimica fu battezzata farmaco cattolico, preso questo aggettivo cattolico nel senso di universale, ed anche assonante con la Sacra Romana Chiesa, la quale prendeva simpatia per un qua­lunque imbroglio che si servisse dei colori della sua bandiera. Allora non tutti erano provvisti di quel sale raffinato che oggi è comune; la mente dei probi non sospettava che le parole di questa dottrina mi­steriosa contenessero un doppio significato, con un senso di satira e di celia o di arguzia. O santi ricordi del dotto Pico della Mirandola che tutti ritennero per filosofo tra quelli che avevano trovato la pie­tra, che poi non deve essere una pietra nel senso letterale!

Discepolo. — Divertente!

Giuliano. — Dicevo dunque che gli alchimisti molto si servirono di soggetti e di simboli biblici in secoli nei quali il pane non doveva essere chiamato pane. La scienza allora non era libera, come oggi, di esporre le sue verità conquistate, senza temere nè tratti di corde nè roghi, nè fastidi. Vedete che parlando con voi sono limpido e chiaro come l'acqua delle fonti nei canti pastorali. Se dovrò esporvi cosa che nessuno sa, ve la dirò così francamente che anche i lattanti nelle braccia delle balie la potranno capire. Il Serpente, quel tale che parla continuamente alla signora Eva, è un rettile che non appartiene, come simbolo, alla sola zoologia biblica. Il simbolo è pieno... di sale, se mi permettete di dire così. Dall’Egitto antico alle storie nebulose dei popoli del Nord, il serpente si trova dovunque. Sulle rive del Nilo molte divinità avevano nel corpo qualche serpente o qualche cosa del serpente : Serapide, dio della medicina, che poi passò nel Pantheon Romano, aveva un serpente attorcigliato al corpo. Un serpente portò nella sua bocca ad Esculapio l’erba miracolosa che risuscitò Androgeo. Il serpente che si rode la coda fu interpretato ai nostri tempi come il ciclo di dodici lune che vede rinnovare il mondo. Iside aveva un serpente nella sua acconciatura. Ercole strozza in culla due grossi serpenti. I Faraoni lo portano sul diadema reale. Sulle pareti delle case pompeiane gli affreschi sono ricchi di serpenti. Nelle Indie, nel Ceylan e in tutto l'Oriente, quando non è il serpente è un drago a forma di serpente alato. Nelle mitologie dei popoli del Nord il serpente, col clima freddo, non si lascia desiderare... Potete rivolgervi ad un eru­dito in materia di iconografia religiosa per informarvi che, prima del Caos, già il serpente passeggiava per l'Universo, in cerca di Eva che non ancora il Creatore s’era deciso a formare dalla costoletta del primo uomo. Dunque, creato il Paradiso Terrestre pieno di banane e di frutta candite, con collinette di parmigiano grattugiato e con mac­cheroni cotti che piovevano dal cielo, già pieni di burro fresco e di salsa alla bolognese, non è affatto strano che Adamo ed Eva, senza le otto ore di lavoro al giorno, non potessero far di meglio che discorrere con gli animali che non avevano perduto ancora il dono della parola. Gli alchimisti si sono avvalsi di questa bella trovata per ricamarvi sopra tutta una favola simbolica per spiegare, ai figli dell’arte, la ma­niera come mutare i vili metalli senza valore in oro puro. Volevano, brava gente, arricchire il genere umano! Poi pensando che se aves­sero data la ricetta semplice e tutti fossero in grado di accendere il fornello e produrre due chilogrammi di oro controllato in un’ora, il prezioso metallo sarebbe diventato più comune della terracotta, e si sarebbe potuto comprare una scodella di oro fino per una manata di lupini, si riserbarono di svelare solo per simboli il metodo di fab­bricazione dei doppioni di Spagna. E che simbolo! Le sciarade, i rompicapo, gli indovinelli son cose da ragazzi!

Discepolo. — Anche io ho letto qualcuno di questi libri, ma non ne ho capito mai niente. Se, come avete detto, questi alchimisti non osavano denunziare il loro scopo e si servirono di un manto religioso e non sospetto per scriverne, si può sapere che cosa, infine, volessero dimostrare ed ottenere? Voi che da tanti anni vi siete occupato di Ermetismo e di Magia, non ne dubito, dovete conoscere il loro secreto. Certamente la lunga lista di scrittori alchimici, che comincia da epo­che immemorabili fino ai bizantini e poi agli europei dell’epoca di mezzo, non può essere l’esposizione di un’idea del niente, di un niente espresso in un vaniloquio fatto artificiosamente per occupare dei lettori oziosi, in cerca di stranezze. Voi avete citato Pico della Mirandola; ma S. Tommaso d’Aquino, illustre in tutto l’universo, non scrisse anche lui delle pagine alchimiche? Dunque gli scrittori e gli eruditi che trattarono di tali argomenti dovettero credere a delle verità che nei simboli alchimici si nascondono. Badate, caro signor Giuliano, io non dico che questi autori o la maggior parte di essi conoscessero veramente l’arcano in atto, ma devono per lo meno questi stimatissimi o celebri scrittori del loro tempo aver intravisto e precisato un argomento realizzabile in tutta la prosa alchimica. E’ facile desumere che dalla alchimia venne generata la moderna chi­mica, quando gli alchimisti presero ad accendere dei fornelli e a lambiccare delle sostanze. Un viandante che cammina per una lunga via tra boschi folti per raggiungere un paese che è il suo punto di arrivo, non può prevedere se lungo il viaggio trovi una graziosa donna che lo incanti e lo devii e gli doni contentezza tale da fargli obliare lo scopo e il disagio della sua fatica. La chimica dovette nascere e progredire così fino alle moderne maraviglie. Ma, insomma, il viag­giatore non avrebbe intrapresa la lunga traversata di un immenso bosco, se non avesse avuto un fine da raggiungere! Ora quale, dite voi, è stata l’idea madre che ha creato l’alchimia degli alchimisti?

Giuliano. — Che cosa rispondervi quando premettete che, pel solo fatto che studio da tanto tempo l’argomento, devo certamente aver capito che cosa volessero dire e dimostrare e ottenere gli alchimisti? La cosa è più difficile di quanto potete immaginare e di quanto ordinariamente si crede. Sentendo, da uomini che passano per dottissimi, che l’alchimia è la nonna più che la madre della mo­derna chimica e niente altro, vien voglia di ridere dell’umano senten­ziare delle persone che ripetono giudizi stereotipati, emessi da quelli che ne sapevano meno di tutti quanti e passavano per saggi. Dal punto di vista di chi si ferma all’apparenza, l’ho già detto cento volte, l’alchimia ha generato la chimica del secolo passato, e questa, a sua volta, ha avuto una figliuola più dotta che è l’attuale del secolo ven­tesimo. Vi è stata un’epoca in cui l’enunciato alchimico di trasformare il ferro delle grondaie in oro puro fu preso alla lettera da tutto il mondo cristiano, perchè, per quanto Cristo e i suoi discepoli fossero una grande raccolta di gente onesta e senza quattro centesimi in sac­coccia, i cristiani e gli ebrei amarono il denaro che è la sintesi di tutti i piaceri e delle comodità della vita. I religiosi, i preti, i monaci, prima di tutti, abboccarono all’amo e giustificarono i loro travagli e le loro pene per tale ricerca, col pretesto di voler armare le galere cristiane contro i Turchi, o per dare i mezzi necessari alla chiesa per la grandezza della religione cattolica. Basta aprire un qualunque libro sulla storia dell’alchimia per trovare che Pelagio, scrivano di San Giovanni Crisostomo, Eliodoro, vescovo in Tracia, il nostro Marsilio Ficino, canonico, S. Tommaso d’Aquino, Alberto il Grande, domenicano anch’esso, Basilio Valentino, monaco benedettino, si dissero tutti alchimisti. Lo furono veramente o sono bubbole accreditative di questa scienza misteriosa le cui origini si fanno risalire ad Ermete Trismegisto, a Mosè, a Maria Ebrea, che, prigioniera degli Egizi, dovette apprendere da costoro, che sapevano distillare da mae­stri, come si compie l’opera e come si lambicca? Dunque gli Egizi conobbero tale scienza della trasformazione prima di Mosè; forse era eredità loro pervenuta dagli atlantidi, forse gli atlantidi l’avevano appresa nell’ambito del Paradiso Terrestre da quello stesso serpente che disse ad Eva che se voleva con Adamo eguagliare in potenza il Padre Eterno, dovevano mangiare il pomo da cui scaturirono tutti i mali degli uomini, e, per soprappiù, la venuta dei tanti redentori che inutilmente hanno tentato di liberarci dalle seccature e dai vizii atavici. Ora quelli che presero alla lettera l'alchimia, accesero i forni, soffiarono con la bocca e col mantice per far fiammare ad altissimi gradi i crogiuoli che dovevano creare il seme aurifero necessario alla conservazione dei metalli. Non riuscendo a trasformare niente, a furia di esperimenti, di prove, di saggi, di distillazioni, dettero origine alla chimica. Ma l'alchimia dei veri grandi Maestri restò più misteriosa e più araba fenice che mai. Intorno ai tempi in cui visse e scrisse il nostro Pico della Mirandola era di moda essere bene informati sull'alchimia : barbieri, speziali, bottegai, tutti ne parlavano, e tutti conoscevano segreti alchimici che regolarmente non dicevano a nes­suno. La polvere di proiezione, la pietra filosofale, l'elisire di lunga vita, li tenevano un po’ tutti i capoccia, ben conservati, tanto bene nascosti che nessuno più li trovava.

Discepolo. — Ma, parlando tra di noi, vi ripeto la domanda: che cosa avete potuto pensare, leggendo i libri di alchimia, degli alchi­misti veri e dei segreti che volevano in una stessa maniera insegnare e nascondere?

Giuliano. — Che cosa sospetto, volete dire? Eccoci a parlar chiaro e in tutta confidenza, come parlassi a un monaco santo dalla grata di un confessionale: gli alchimisti che conoscevano la loro materia dovevano voler dire qualche cosa che non è nessuna delle tante frot­tole che essi stessi hanno scritto per imbrogliare i cristiani che asse­rivano di volere aiutare contro il Gran Turco. Sospetto, mio ottimo amico, un mondo di cose che, stando alla interpretazione dei simboli e delle allegorie, per un caso strano sembrano tutte coincidere con la spiegazione che si dà sul momento e poi cangiano. Considerando che per analogia paragonavano tutti gli uomini ordinari a dei metalli vili, volevano forse dire che possedevano il segreto di trasformarli in buoni e nobili di idee e di pensiero e di morale? Ma se fosse stato così, che bisogno vi era di tener chiuso in un ripostiglio nascosto questo famoso produttore del prodigio di migliorare gli uomini e renderli buoni ed intelligenti? Oppure, pensando che esistono per la salute corporea dell'uomo un gran numero di mali e di minacce di infermità, essi possedevano il rimedio capace di mutare l'uomo debole, soggetto alle influenze maligne della temperatura, dei cibi, dei con­tagi, dei vizii, in metallo che non si ossida o corrode con facilità e atto a conservare la perpetua giovinezza? Questa interpretazione sarebbe avvalorata dalla leggenda di Faust, vecchione e dottore che beve un elisire diabolico e ridiventa giovane, pieno di fosforo, per fare il Casanova con le donne e per maravigliare la platea che lo sente cantare da tenore, lui che era un momento prima un decrepito con­trabbasso catarroso? Anche una tale spiegazione potrebbe essere vero­simile, ma resta sempre insoddisfatta la domanda che non vi è ragione di tener nascosto l’arcano, per favorire i medici a corto di clienti e i farmacisti. Vi è un’altra sospetta interpretazione: se voles­sero dire che vi è un procedihiento naturale per mezzo del quale l’uomo di limitato ingegno può, con droghe, elaborare, migliorare o perfezionare il proprio intelletto in maniera da diventare intuitivo e penetrante e veder chiaro in tutte le cose? Anche qui resta inesaudita la domanda ed il perchè di un segreto geloso che non si svela a nes­suno. La biblioteca che raccogliesse tutti i libri alchimici stampati da tanti illustri sconosciuti sarebbe così vasta che tutta la vita di un uomo non basterebbe a sfogliarla. Ve ne sono, caro amico, dei libri su questo soggetto! E che libri, da far mettere le mani nei capelli anche a quelli che hanno la zucca pelata. Ve ne sono in greco, in latino, in italiano, inglese, tedesco... in tutte le lingue l’amore dell’oro ha richia­mato l’attenzione degli uomini dotti. Ve ne esistono di quelli che portano solo dei disegni, come il Liber Mutus che è alla fine del se­condo libro del primo tomo nella collezione di Giacobbe Monget (due grossi volumi stampati a Colonia verso il 1700 0 giù di lì). Se ne avrete occasione, dateci uno sguardo e vedete un po’ se vi riesce di capirci niente. Un uomo e una donna che fanno delle pallottole, le gonfiano, le friggono; ma son pallottole o bolle di sapone gonfiate? Vi è una campagna seminata a grano, con delle lenzuola, a bucato fatto, scio­rinate al sole. Chi sa che cosa sia tutto quell’imbrogliatissimo ma­gistero in cui nessuno può riuscire a indovinare il significato?

Discepolo. — Questa è una notizia curiosa! Un libro senza pa­role! Non dubitate che cercherò, alla prima occasione, di vedere tale capolavoro.

Giuliano. — E non è una curiosità sola che vi apprestano questi argomenti. Voglio dirvi di un mio amico, solutore di sciarade, che imprese a interpretare la prova e i disegni di Nicola Flamel. Cono­scete la curiosa storia di questo Flamel che aveva comprato da un ebreo un quaderno con strani disegni colorati che nessuno sapeva che cosa volessero dire? Ricerche lunghe e pazienti non valsero a niente, finché non si decise a fare un viaggio in Ispagna e a doman­dare non so a che Santo e a quale Madonna di illuminargli la zup­piera e fargli comprendere bene i disegni che aveva pur tanto studiato. Se volete i particolari della sua storia e delle notizie su quelli che si occuparono della Pietra Filosofale, posso ricordarvi un libro pubbli­cato in italiano a Torino verso il 1905, dal Prof. Rizzatti di quella Università, il quale autore non è un alchimista, perchè non pare che ne abbia capito gran cosa, ma il suo lavoro è chiaro, conciso e un vero compendio storico bibliografico di questo soggetto. Insomma io posso dirvi in due parole che il signore mio amico, solutore di sciarade ed enigmi, innanzi a certe figure attribuite a Flamel, tanto studiò, tanto interpretò che mi venne a confidare... Flamel e sua moglie Petronilla avevano scoperta la maniera di fabbricare le ta­gliatelle all’uovo!... Ecco i serpenti nella tomba che rappresenterebbe, secondo l’interprete, un vassoio per mangiarne a crepapelle. E alla storia di questo Flamel si dette un seguito, e si trovarono persone che tre secoli dopo affermavano di averlo rivisto sano e giovane, con la sua Petronilla, non so in quale città dell’Asia ove continuava a fare il pascià. Idea questa che vorrebbe accreditare la voce che chi possiede la Pietra dei filosofi può ringiovanire sempre a piacere, fino a quando non si sia seccato dei continui mutamenti e non si metta a studiare il modo come... morire per davvero!

Discepolo. — O che bei matti!

Giuliano. — Ma la cosa più grossolanamente matta si trova negli scritti anonimi (quasi sempre) o firmati dagli alchimisti. Tutti dicono che gli altri autori non si sono fatti capire e che essi, invece, espon­gono chiaramente la bisogna e esprimono ogni cosa con semplicità e candore. Leggete il Filalete che pare sempre che non sappia tenere secreto in bocca mentre poi non dice mai niente. Leggete il Filet d’Arianne, colei che, entrata nel labirinto per rintracciare Teseo, cercò di ritrovare la porta di uscita col filo di un gomitolo che svol­geva a misura che s’inoltrava. L’autore di questo lavoro nel suo proemio afferma, con semplicità, che tutto potrebbe scriversi in tre righe, ma per spiegar bene sciorina il libercolo che non conchiude nulla. Leggete il Ripley, Arnaldo di Villanova, Pietro di Abano, il Trevisano e vedrete preponderante sempre lo stesso motivo musicale. Tutti parlano chiaro e nessuno fa capire qualche cosa. Verrebbe la voglia di domandarsi se la maravigliosa dottrina non sia fatta per far perdere il tempo e la bussola al lettore.

Discepolo. — Ed infatti, quando non mi era venuto in mente di occuparmi di queste scienze o pseudoscienze, anche io volli leggere qualcuno dei libri che voi citate. Si riportavano delle pagine che a prima vista sembravano dire qualche cosa, ma quando andavo ad analizzare le idee lette, mi pareva che gli autori o fossero dei sublimi imbroglioni o dei soggetti di cliniche psichiatriche. Allorché comin­ciaste a parlarne, se avessi avuto con voi maggior dimestichezza, vi avrei detto che era inutile occuparci di questi artifici dell'inganno, ma credendo molto nella vostra erudizione, vi ho ascoltato anche per sapere come e che cosa pensate di questi scrittori che hanno preoccu­pato l’uman genere per parecchi secoli. La nostra Caterina dei Medici quando andò in Francia sposa ad un Re si fece accompagnare da un discreto numero di astrologi, indovini e alchimisti italiani che inon­darono, in quel torbido periodo, il nuovo paese della loro Signora di metodi e teorie nuove che infiltrarono e meglio aggrovigliarono le in­discrezioni filosofiche che già vivevano di vita florida in quel regno. Non dimentico che in quel torno di tempo visse e prese fama quel Michele Nostradamus, autore delle Centurie che, omologamente alle profezie di Malachia sulla successione dei papi, furono legge per certi acidi lettori di prodigiose predizioni in cui si trova e si scopre tutto quello che si vuol trovare. A conti fatti, dalla maniera come voi mi parlate, e dal tono giulivo col quale ne discorrete, mi sembra che dall’alchimia non conservate tutta quella buona opinione che gli altri scrittori di scienze misteriose mostrano di avere.

Giuliano. — Intendiamoci bene, e non mi fate dire quello che non penso. Io guardo le cose come si presentano, e non come sono in realtà, sfrondate da tutto l’ornamento delle belle chiacchiere. Au­tori e libri sono così come ho esposto e come voi stesso dite che ve ne siete formata una idea leggendoli; ma possiamo in coscienza, con retto giudizio, affermare che il tale autore era un imbroglione e il tale altro sapeva veramente quello che i più non conoscevano, e che all’ora attuale della nostra civiltà il pubblico degli studiosi non sa che cosa pensare di certi problemi che si sballottano tra la supersti­zione, l’empirismo e la dottrina sperimentale? Mio caro critico, var­rebbe fare un salto nell’ignoto se, prendendo per moneta contante tutte le parole e i capitoli di tutti gli autori di libri di alchimia, attri­buissimo loro un valore scientifico e provato ammettendo che l’alchi­mia, nel senso di una prima chimica degli elementi semplici, dei quattro componenti la materia cosmica, nascondesse veramente un arcano che sarebbe la radice del mondo animale...

Discepolo. — Ho paura di voi quando cominciate ad adoperare dei paroloni. Poco fa mi avete detto che i libri non insegnavano affatto ad educare e a preparare futuri alchimisti. Ne convengo. Ma ora è che sognate che vi possa essere, dunque, un problema e una analisi e una ricostituzione della materia cosmica, come sublime accenno ad un enunciato sbalorditivo di creazione: qualche cosa che supera in audacia la produzione della cellula vivente in un laboratorio chi­mico. Ora io non voglio trasportare la discussione su di un argomento che non sono nè disposto simpaticamente a discutere nè prendere a pretesto per deviare su di un soggetto che ci allontana dal nostro proposito. Sono cose che non hanno legami con l'alchimia come ci è presentata nella storia, con libri e con accenni a potentissimi mi­racoli, possibili interpretazioni dopo che abbiamo escluso il significato che si è voluto dare alle operazioni per la produzione dell’oro per trasmutazione di metalli vili. Per poco che mollo la briglia, apro l’orizzonte vostro ad una poetica esaltazione, e mi cominciate a par­lare di un possibile grande arcano alchimico che risponde al rinve­nimento della radice del mondo animale. Capirete che io provengo dalle università moderne dove tutta la mia educazione è proceduta di esperienza in esperienza con metodo positivo e rigoroso. Fronteg­giando un soggetto di discussione che esce dalle solite e ipotetiche dottrine dell'anima, dello spirito, dell’intelligenza e dei corpi siderali che voi mi annunciate risiedere nell’organismo umano, sono disposto a far passare l’esposizione di un fatto reale che voglio sapere così come è ed è stato concepito, e non l’enunciato di una nuova alchimia come voi immaginate che possa essere, e il segreto che dovrebbe pos­sedere e nascondere.

Giuliano. — Non mi dispiacciono le vostre parole; non per quel che significano, ma pel tono col quale le pronunziate. La vostra pic­cola irritazione mi comincia a svelare che prendete interesse all’enun­ciato alchimico: certo non è l’avidità dei frati e dei preti e dei re di altri tempi, che vi spinge, nè volete armare le galere cristiane con­tro il Sultano di Trebisonda. Ma, insomma, voi agognate scrutare il fondo scientifico della macchina delle ricchezze, benché siano più comodi i fogli da mille lire che le borse con dieci grossi ducatoni di Spagna. Ed a dirvi la cosa francamente, questo scopo profondo e nobile di fare l'oro monetabile, l'oro a verghe, l'oro metallo nobilis­simo, non credo che gli alchimisti veri l’hanno mai avuto o vagheg­giato. Se volete, come ne avete mostrato desiderio, sapere la mia opi­nione, ve la manifesto subito. Quelli che hanno, leggendo o parlando, fatta l’alchimia per produrre l'oro, sono stati coloro che non dovettero mai capir niente della cosa; ed accesero forni e cremarono, e fecero bollire metalli, erbe e dejezioni animali per trovare la polvere che doveva appresso mettere i metalli ignobili, come il piombo, il ferro, lo stagno, in fermentazione per trasmutarli. Fu da questa alchimia di metallurgi che nacque, per una serie ininterrotta di prove inutili, l'attuale chimica. Per esempio, l'antimonio venne scoperto dal mo­naco Valentino che aveva acceso i fuochi alchimici nel suo convento e che un bel giorno buttò nella corte un residuo di crogiuolo dove avevano bollito diverse sostanze, residuo che fu mangiato dai porci del convento che ne ingrassarono con generale maraviglia e consola­zione. Egli volle mettere un po’ dell'intruglio nel pentolone della mi­nestra monacale, ma i frati furono presi da forti diarree... Quindi la sostanza, favorevole ai porci, divenne contraria ai monaci, quindi antimonacumantimonium e poiantimonio del nostro codice me­dico, arsenico di antimoniostibium arsenicosum, polvere bianca che si dava alla dose massima di due milligrammi. Si adoperava molte volte come caustico di ulceri e piaghe. Ed omiopaticamente, a basse attenuazioni, contro la diarrea e le coliche dei... monaci. Ma i veri alchimisti, si vede chiaramente, non volevano far niente di questo; dalla lettura dei loro scritti non è venuto mai nessun principio chimico da mettere in pratica.

Discepolo. — Meno male; è la prima volta che vi tiro dalla bocca una affermazione precisa. Ma Raimondo Lullo, per voi, è un alchi­mista della prima specie; mi pare di averlo letto spesso nei vostri libri. Ora non so dove ho trovato scritto che innanzi al re d'Inghil­terra, dopo esser stato chiuso in una torre a Londra, trasmutò dei metalli in oro.

Giuliano, — Avete letto più di quanto volete far credere. Anche io ho avuto occasione di dare uno sguardo all'Histoire de la Philosophie Hermetique pubblicata a Parigi, non so da chi, nel 1742. Que­sto fu un libro assai diffuso in quel periodo di tempo ed è una storia molto documentata a... fantasia. Figuratevi che ci vuol far sapere che Mosè, con la sua barba ben lunga, e S. Giovanni Evangelista furono alchimisti; che il filosofo Democrito imparò la scienza ermetica e l’alchimia da un persiano che andò a Menfi, e cita Seneca che lo ha lasciato scritto. Ed arriva a Bacone e ad Arnaldo di Villanova per farci apprendere che Lullo li riconobbe come suoi maestri. E quest’anonimo autore assicura che sono esistite delle monete, del peso di dodici ducati, coniate con l’oro fabbricato da Raimondo Lullo, monete molto strane con l’iscrizione Jesus autem transiens per medio illorum ibat che nessun numismatico del tempo seppe dire a che cosa volesse alludere. Come vedete, anche io conosco la leggenda, ma non mi entra nel cervello, se le monete sono realmente esistite, che quello sia stato oro creato e fuso dal filosofo majorchino.

Discepolo. — Allora mettiamo Lullo in quarantena, stimiamolo come alchimista, maestro dell’arte indefinibile di una chimica tra­scendentale in cui le cose si pensano in un modo e s’insegnano in un’altra maniera, dotta e semplice tanto da non farla capire a nes­suno. Ma parlatemi di maestri alchimisti italiani come S. Tommaso d’Aquino, Pico della Mirandola...

Giuliano. — Voi, mio caro amico, critico e seguace del metodo positivo, volete dirigere i nostri discorsi, come i reporters americani all’assalto di novità e di stranezze. Con buona pace del vostro me­todo e della vostra educazione scientifica, credete di trovarvi in­nanzi ad apostoli della superstizione che alla ampia libertà della cul­tura contemporanea vogliono contrapporre reminiscenze leggendarie di epoche lontane, nebulose, quando la fantasia degli eruditi e l’igno­ranza dei lettori, dei chierici, dei monaci, dei curati, creava incoscentemente miti che parvero ai posteri storia vera. Con un senti­mento di orgoglio vi ho detto, fino dai primi abboccamenti, che la nostra Scuola Ermetica è italiana, non perchè Ermete fosse privativa nostra, ma per l’originalità e l’indipendenza nostra nella disamina delle antiche mitografie e nel disgusto di seguire i mistici, i pseudo­scienziati stranieri e i vivificatori delle superstizioni care al grosso pollame degli scemi che vanno alla ricerca del fantastico e scam­biano la filosofia ermetica col romanzo. Voi mi avete voluto vantare la vostra educazione universitaria, ma questa non vi salverebbe dal cadere nel mare magnum delle frottole se per poco io vi stuzzicassi al punto da farvi vagare col cervello nell'inestricabile labirinto della credulità. Noi facciamo qualche cosa che è essenziale alla nostra razza, noi conserviamo uno spirito critico che è iconoclasta, ana­tomizzando la parte mistica e di sicura superstizione dell'’ignoranza dei favoleggiatori, con la serenità di una convinzione scientifica che non è distruttiva come la vostra metodica abitudine di controllo ai fatti. Se vi parlo in tono demolitivo di certe leggende ermetiche e di personaggi tirati in ballo come alchimisti di cartello, non vi distruggo la ricerca della idea madre che è una realtà, ma la flora di cui è ornata per far credere cose che non sono mai esistite.

Discepolo. — Insomma reclamate la libertà di esposizione come se voi foste senza passioni nello esporre le vostre idee fondamentali della scuola.

Giuliano Non dovete essere convinto: io reclamo che non si addebiti, a noi quella tendenza alla mitomania che è una forma spiccata dell’entusiasmo folle di mattoidi che son privi di discerni­mento per buona fede nella loro mistica intemperanza. L’ermetista, il mago, il filosofo delle forze psichiche, deve non commuoversi ed esuberare nè per sè nè per i discepoli: quante volte io ho detto e scritto che per evitare qualunque forma mistica in materia di inve­stigazione scientifica bisogna cominciare dal non credere?

Discepolo. — Come facciamo noi della esperienza positiva. E voi avete prese certe mie interruzioni per irriverenti scortesie!

Giuliano. — Sì, perchè la forma vostra di miscredenza non ap­proda alla purificazione delle favole dalla cornice di chiacchiere e di immagini che nascondono la verità, e la negazione prende nell’insieme sia le esagerazioni mitiche e mistiche che la verità stessa. Vi pare che sia giusto? Le superstizioni ci sono trasmesse con criteri esagerati. Come le fiabe. Come le religioni favolose di cui ci sono tramandate le apparenze rituali e simboliche. Come gli stessi ricordi e le tradizioni della medicina di altri tempi. Bisogna sfrondare, denudare, isolare dal miscuglio la verità che è nascosta ed invisibile agli occhi del volgo. Per far questo intorno alla verità alchimica, occorre riferirsi ad un concordato tra l’epoca in cui viviamo e quella a cui si riportano le storie favoleggiate di alchimisti o di pretesi alchimisti in fama di superuomini nella cosa di cui ci occupiamo. Uno di questi è Raimondo Lullo.

Discepolo. — Bella questa! Un ermetista che discute un alchi­mista ritenuto finora come un gran maestro dell’arte!

Giuliano. — L’opera di questo grande è immensa relativa al se­colo XIII in cui visse. Mistico e cristiano. A trent’anni abbandona moglie e figli e, come Budda, comincia la sua missione. Dodici se­coli di cristianesimo erano passati come un enorme ciclone sulla civiltà latina. Geova ebreo aveva provveduto, con l’astuzia di un figlio redentore, a imprimere sulla psiche spaurita degli europei, persuasa che esistesse un mondo migliore di questo terreno, l’idea che la no­stra fosse vita transitoria e che gli umani avessero per patria i cieli invisibili o gli inferni fiammanti. Il medioevo filosofava mentre l’Islam si avanzava con la scimitarra sguainata alla conquista dei paesi che non credevano ancora in Allah. Cristiani e Saraceni di fronte. Il Mediterraneo campo di lotte e di piraterie. Dai conventi e dal chiericato vaneggiava la filosofia dell’unità cattolica e cristiana che doveva imporre, all’Universo noto, l’unico dio e l’unico credo politico. I concilii sentenziavano a base di peccati, di coscienze, di spropositi, di fede. Sulle coste d’Italia incursioni saracene. Averroe filosofava in maniera di spaventapasseri e Lullo è in possesso della lingua e della scienza degli arabi. Lullo fa disegni e proposte di crociate e di missioni apostoliche nei paesi degli infedeli, invita a fondare insegnamenti di lingue orientali per preparare le missioni, e diviene autore dell' Ars Magna che insomma non è che la tentata pratica per risolvere la realtà possibile dell’arte di provare o rin­tracciare la verità dimostrativa della fede. Base pratica, nella vita politica, la supremazia dello spirituale sul temporale, il contrario di oggi, otto secoli dopo, in cui ogni spiritualismo nelle università è antiscientifico. Nell’Unità metafisica si fondono tutti i valori e la pratica di una unità spirituale. L’impero della Chiesa Romana tenta il rinnovamento dell’antico impero su tutte le potestà del mondo. Ma nella vita, procedendo la ragione fondamentale da una conce­zione erronea degli artigli che la Sfinge ha pronti per tenere la preda, l’idea delle Nazioni germoglia e l’idea dell’Unità politica imperiale della cristianità, con a capo il Papa, è vinta per sempre. Raimondo Lullo è tra i forti sostenitori di questa idea unitaria che fu poco dopo di lui seppellita, e sopravvive solo ancora oggi come spirito della chiesa che, invece di camminare col tempo evolvente le idee e la scienza, si cristallizza nella tradizione e si lascia sorpassare dalla umanità dei tempi nuovi, restando un’antitesi che morirà di una seconda morte definitiva. Ora nel XVIII secolo, quando tante pub­blicazioni alchimiche furono compilate, il Lullo compare, come cosa assodata, sotto l’aspetto di un alchimista che fa dell’oro e di un teorico sapiente che conosceva la Grande Arte... lui che l’aveva scritta con altra intenzione. Forse più di tutto il Lullo si riferì a questo soggetto nel Liber experimentorum, ma bisogna riflettere che la sua fu l’epoca in cui l'Alchimia della trasmutazione cercava di mutare l’uomo animale in uomo divino, e si passava dalla filosofia religiosa alla ricerca fisica e psichica, quasi un segreto da rinvenire, per l’angelizzazione del diavolo uomo. I quattro elementi non erano chimici ma stati elementari dei corpi, come in natura: aria, acqua, terra, fuoco, a cui corrispondevano gli stati spirituali, mentali, psi­chici, fisici che sono i nostri quattro corpi ermetici di cui vi ho par­lato nei primi dialoghi (Sole, Mercurio, Luna, Saturno).

Discepolo. — Abbasso Saturno!

Giuliano. — Erano i tempi in cui scriveva Ruggero Bacone, che l'esperienza è la causa formativa di tutte le scienze e nell’insieme è l'esperienza che determina le teorie. Il Boinet, parlando delle di­verse dottrine mediche — perchè la scienza medica non riposa mai su soffici cuscini e muta ogni momento di sistema e di dottrina — dice con acume che l’alchimia tentò di servirsi del principio della vita e considerò l’anima come l’uomo, microcosmo, tutto contenuto nel soffio vitale. Perciò nelle nostre conversazioni precedenti vi ho indicato con insistenza il significato etimologico delle due parole anima e spirito. Vi prego di ricordarlo bene, perchè tutto il simbo­lismo alchimico è un tessuto fittissimo di rapporti etimologici, ana­logici, e omologici. Più la nostra cultura sociale diviene vasta ed enci­clopedica e meno la gente capisce quel linguaggio alchimico e quei segni simbolici, per comprendere i quali l’educazione moderna non è una buona preparazione. Due sono le facce dell’esposizione alchimica: mutare i metalli volgari e di poco prezzo in oro, e trasmutare l’anima vile e volgare dell’uomo in spirito (soffio) divino. Il Verbum caro, la parola pronunziata che crea, che inesorabilmente realizza, è di concezione gnostica. Il rinvenimento della Pietra Filosofale na­scondeva il secreto della evoluzione magica ed occulta dello spirito dell’uomo.

Discepolo. — Dunque questo fu un secreto? Un secreto vero e proprio, o una finzione di secreto per darsi importanza verso il gros­so pubblico e verso la credulità della platea meno astuta? Se si riflette a questo, è giustificato il criterio dei moderni che classifica come im­broglioni tutti coloro che si danno vanto di sapere che cosa sia la pietra e che affermano di possederla. Anche circa i commenti alle religioni antiche vi è molto da sospettare che sono i nostri contem­poranei (voi, per esempio) che sognano o intravedono significati na­scosti, filosofici e scientifici nei riti delle religioni morte, riti che probabilmente furono inventati come una commedia del teatro re­ligioso per influire sull’immaginazione della platea.

Giuliano. — Ogni discussione su questo argomento non è vana, mio caro critico; credo anche io che tanto può apparire vera e tanto considerarsi falsa o inesatta una qualunque ricerca filosofica sulle religioni e le iniziazioni antiche. Io ritengo giusta la mia opinione e il ragionamento è confortato dalla mia persuasione. Se discorrendo ve la espongo, non mi permetto di presentare dei dogmi filosofici o scientifici. Io dico ciò che penso, e perchè penso così e non in modo diverso. Le mie parole non nascondono nessun pensiero recondito su cui ho bisogno di prendere un brevetto di privativa industriale. La scienza è il pane di tutti; per la centesima volta vi ripeto che essa è patrimonio non di tale o tale altro scopritore, ma di tutta l'umanità; però su simili argomenti religiosi o velati nei riti di reli­gioni scomparse, se non investighiamo nel più confacente modo pos­sibile, il secreto scientifico o filosofico che può esservi esistito non si sospetta mai. Allora la chiave (e questa verità nascosta dai sa­cerdoti antichi deve avere, per essere svelata, una chiave) resta nella mano di S. Pietro, del quale nome potrebbe esser guardata l'etimo­logia... analoga alla Pietra. Se potessi parlare con l'arguzia del Filalete nell'Introitus apertus, potrei dire che Petra simbolicamente do­veva tener compagnia a Petrus, ed osservare se le due chiavi (Pietro ne ha due? una non bastava?) erano col buco, o una col buco e l’altra no; noterei che petra è anche parola greca che, come la latina, vuol dire sasso e rupe, ed aggiungerei, per mostrarvi che sono un uomo dotto, spaventosamente erudito nello scibile dei ciottoli e dei sassolini, che Petra fu città araba, e che della Pietra dei filosofi si cominciò volgarmente a parlare nel periodo della filosofia araba.

Discepolo. — Veramente si scrisse lapis philosophorumLapis...

Giuliano. — Quelli che ne scrissero col nome di lapis erano poco acuti alchimisti, perchè ne capirono come interpreti e non come maestri dell’arte : lapis non è petraLapis è pietra nuda, è sasso mon­dato, è montagna spogliata e senza vegetazione. Lapillus è proprio la pietruzza, il ciottolino della spiaggia; il Vesuvio per seppellire Pompei vomitò lapilli; la lapide è marmo levigato. Invece petra è mutamento labiale di ketra, come nota il professor Brozzi nelle sue etimologie latine, citando il passo di Festo in cui dice che vi sono due generi di pietre, l'una naturale e l'altra manufatta; e se mi per­mettete di posare per una volta a grande uomo laborioso di mia su­perlativa sapienza, ho l’onore di dirvi che in alchimia quelli che dicono petra vogliono proprio riferirsi alla manufacta, cioè fatta con le mani. Di qui Petrus, e Petra che faceva la corte alle chiavi del primo per aprire il paradiso. Quis vetat ridendo dicere verum? Non fu per un caso strano che la moglie di Nicola Flamel si chiamasse Petronilla! Costei, in occasione della santa Pasqua, si permetteva di fare gnocchi e lasagne e stendere le tagliatelle a forma di serpenti, ed il marito, guardandola lavorare la farina con le uova, le maniche rimboccate e dimenando le anche per la fatica, con le pitture su pergamena dell’Ebreo di Spagna tra le mani, gridò, come Archimede: Ho tutto trovato e capito.

Discepolo. — Magnifico imbroglio! Vi prego di arrestarvi per non farmi sospettare che nella composizione della pietra vi entrino gli spaghetti al sugo o le fettuccine romane! Groviglio di parole che dicono e non dicono! Siamo sempre a ripetere che i dubbi persistono come per attribuire ai sacerdoti antichi cose che essi non hanno mai detto e pensato, mancando documenti storici che ne parlino con chiarezza e ne facciano testimonianza.

Giuliano. — Le conversazioni che abbiamo tenute finora non hanno cambiato il vostro modo di sogghignare, perchè vi preparate a farmi un appunto critico un po’ feroce. Non posso vantarmi di es­sere riuscito ad iniziarvi a questo nostro ermetismo, poiché dopo tanti ragionari persistete a non volervi allontanare dalla comune maniera di pensare. Le cose che non si sanno si sospettano. La giu­stizia e la scienza non tengono conto delle cose sospettate: la prima non condanna e la seconda non approva e non definisce; ma nè l'una nè l’altra, nè le due insieme, possono impedire che il sospetto esista. E’ tanto naturale, anche quando il sospetto rinnega la ra­gione pura e semplice! Siamo noi che, in cerca di gatti da pelare, vogliamo credere che nelle antiche religioni esistesse un secreto mi­sterioso che i sacerdoti tenevano ben custodito? E non siamo auto­rizzati a pensar questo dal secreto costante che gli iniziati dicevano di mantenere con fedeltà nascosto al grosso pubblico, al volgo? Non possiamo noi nè dire, nè provare, nè dimostrare con documenti che la cosa celata sia questa o quella, ma abbiamo tutte le buone ragioni per richiamare l’attenzione degli uomini colti sull’esistenza fondamentale di conoscenze che i sacerdoti e gli iniziati possedevano o dovettero possedere. Al tempo delle sette religiose antichissime, come delle iniziazioni ai misteri in quei secoli nei quali la concezione della vita dello stato, delle monarchie a base teocratica, non era la odierna, il diritto al comando spettava alla classe eletta; non si but­tavano le perle innanzi ai porcellini. Il cave canem dei nostri padri romani poteva essere inteso in un senso molto concreto : bisogna guardarsi dal volgoVulgus Plebs è la pressione e l’avidità della folla, del numero, la potenza comprimente dell'efflato collettivo. Se state a riflettere alle piccole cose che qui e là la iconografia reli­giosa degli antichi vi rivela, finirete col sospettare anche voi che abbiamo ragione di supporre che le vecchie mitologie non erano sicuramente delle frottole. Tutti gli iniziati della Grecia, dell'Asia Minore, della Sicilia e della Magnagrecia, parlo dei pezzi grossi, non desideravano che di andare a visitare l'Egitto, Menfi o Tebe, e ab­boccarsi coi sacerdoti egiziani. Erano ricevuti con ospitalità dignitosa; ma il sacerdote, dopo di aver scandagliato che cosa i visitatori sapes­sero, si lisciava la barba, e, sorridente, faceva mossa come per dire: brava gente, voi avete la conoscenza degli dii minori, dii piccoli, ma noi abbiamo da fare coi più grandi dell'Universo, con quelli che fanno il caldo e il freddo e che, se si sentissero solleticare da qualcuno poco riguardoso, potrebbero con uno starnuto distruggere il mondo!

Discepolo. — Ho anche io avuto l'impressione che gli Egizi del Tempio non dovevano essere molto accoglienti e larghi donatori di sapienza!

Giuliano. — E se questi dii nascosti nel più remoto dei Cieli, presentati in apparenza umana o in forma di animali, o in sembianza mista di uomo e di bestia, adombravano il possesso di conoscenza delle forze supreme della natura e la maniera di avvincerle e co­mandarle? Vi è sembrata una cosa nuova, una cosa mai scritta e predicata quando vi ho parlato dei rapporti tra il Magnetismo ter­restre e il corpo umano — ora il simbolo Luna (affibiategli tutti i nomi egizi, caldei, greci, latini, che volete, è sempre Luna) restato in magia come l'esponente delle mutabilità, ha sempre gli attributi dell'elettro-magnetismo che influisce sulla natura terrestre : aumento, diminuzione, vita vegetale ed animale; alta e bassa marea; azione sulla materia, sulle piante, sull’uomo, sul sistema nervoso, sul son­no, sul riposo, sull'esaltazione, sull'intelletto e sull'anima delle cose viventi.

Discepolo. — Sarebbe delizioso assaporare una fantastica esposi­zione delle investigazioni da voi fatte sulle deità in rapporto alle forze della Natura, non come al solito per impressione sommaria, ma per esame critico dei criteri sacerdotali per la formazione dei simboli divini.

Giuliano. — Non divaghiamo troppo. Avremo occasione di par­lare di tutto; le nostre non sono conversazioni che si chiudono con questa di oggi. Vi ricordo che l’argomento che abbiamo cominciato ad esaminare per ora è la pietra dei filosofi sulla quale dobbiamo discorrere a lungo, perchè, caro amico, devo riuscire a ben persua­dervi che la nostra scuola non è un manicomio, quantunque a pri­ma vista si senta che il nostro pensiero è in antitesi con la ragione investigativa dell’odierna cultura. Siate paziente. Saturno clemente donerà a noi il tempo necessario per farmi dire quello che dovete sapere e che non teme le critiche vostre o dei vostri docenti. Dunque vi dicevo che varie sono le ipotesi di interpretazione di questo sim­bolo della Pietra, e che se vi furono papi non entusiasti di questi studii, voi potete giustificarli come di odorato molto fino. Quella fu la torbida e mutabile atmosfera in cui si agitò Raimondo Lullo, oscura età di mezzo in cui germogliavano i primi semi della eman­cipazione della medicina dalla filosofia che due secoli dopo doveva permettere la grande iniziativa di Paracelso, che parve a Leibnitz
il  miglior medico tra tutti i pazzi e il più pazzo tra tutti i medici. Nei tempi dell'agitatore di Majorca tutto si muoveva nell’orbita del­la religione, e l’idea dell’unità del mondo abitato con un solo dio e un solo Pontefice era l’incantevole sogno che solleticava la vana­gloria delle grandi potestà spirituali che il nome del Signore dei Cieli volevano mettere un piede su tutti i re coronati della terra.

Discepolo. — Oh! su questo buon mattoide di Paracelso sarebbe bene che ci fermassimo un poco.

Giuliano. — Ancora un desiderio? Ancora una digressione. Men­tre vi appassionate ad una cosa, diventate subito curioso di altre! Sentite il bisogno di ampliare la vostra erudizione per la vastità stessa di questa grande e misteriosa storia dello spirito umano, nella quale sono incise tutte le miserie dei desideri nostri e gli sforzi ne­cessari che ci spronano a camminare, a incedere, a correre verso quel che ci aggroviglia, ci chiude in tante necessità nuove che ci allon­tanano sempre più dalla Natura, che è l'Archeo di Basilio Valentino, il  principio della vita nel limite del bisogno di vivere e di inneggiare al godimento delle ore vissute, nell’amore e per l’amore per l’uomo e le cose create. Tutti i dotti, verso la fine del Trecento, epoca in cui visse Dante e fu scritta la Divina Commedia, quelli che erano in fama di filosofi, dalla folla furono creduti alchimisti; ma date al­l’Alchimia l’interpretazione che volete, definitela l’arte di trasmu­tare l’uomo volgare in superuomo o i metalli deprezzati in oro, sarete bravo se riuscirete a indicarmi il mezzo per riconoscere, attraverso la storia, chi fu alchimista vero e chi ne godè la fama senza esserlo.

Discepolo. — Consigliate dunque a non prestar fede alla storia mirabolante di tanti che si vantano nei libri di aver ottenuta la proiezione, di aver fatto l'oro, di aver posseduta la pietra? Il Flamel,
il Trevisano, il Rupescissa, il Filalete vanno nella stessa bolgia?

Giuliano. — La mia esperienza, la mia lunga pratica di tanti secoli di ricerche e di conoscenza di alchimisti, mi ha fatto guar­dingo e incredulo verso le vanterie degli uomini. Perchè il proverbio ci ricorda che chi sa il giuoco non l’insegna, e che tra il dire e il fare vi è di mezzo il mare. Raimondo Lullo fu o no un arrivato, un evoluto che aveva raggiunto il grado di parlare creare, se l’Al­chimia è questa? Fu lui a fabbricare l’oro nella Torre di Londra, o è la leggenda che narra cose fantastiche? Lo stesso domanderei a Flamel e agli altri. Per Ireneo Filalete, o per chi è stato l’autore delle opere che vanno col suo nome, la cosa mi sembra più proba­bile, o almeno possibile. Egli, come scrittore, prende tutte le pre­cauzioni per non scoprirsi. Non fa come Cornelio Agrippa che passa un mondo di guai e perde l’amicizia e la fiducia di tanti protettori perchè, avendo scritto un libro di magia, è sospettato di soperchierie. Io, che non ho l’abitudine di fermarmi alle mie opinioni, ne domandai una volta ad un amico che in alchimia era molto dotto e che ora è morto...

Discepolo. — Un alchimista vero? di quelli che sanno fare le trasmutazioni?

Giuliano. — Un vero competente, ma che nel mondo degli uomi­ni ha lasciato un nome molto discreditato!

Discepolo. — Un italiano?

Giuliano. — Italianissimo. Non voglio ancora dirne il nome, per­chè mi gridava spesso, quando era vivo, che io facevo male a scri­vere di queste cose, guastandomi la vita con miserie maggiori di quelle che la umanità volgare sopporta...

Discepolo. — Alchimista ed egoista.

Giuliano. — Egoista perchè?

Discepolo. — Perchè la scienza è pane di tutti e nessun ritrovato scientifico, nessun esperimento che dimostri qualche nuova investi­gazione, nella sua integrità si deve nascondere agli studiosi. Ales­sandro Volta, Guglielmo Marconi, Edison, Currie e tanti altri non hanno celato all’umanità nessuna cosa che rappresenta il risultato delle loro ricerche scientifiche, e l’umanità se ne giova. Un alchi­mista riuscito, o che faccia l’oro, con i ferri vecchi del fabbro o che muti l’uomo mediocre in un uomo divino, ha il dovere di dire tutto, svelare tutto, perchè tutti siamo fratelli nel senso che abbiamo di­ritto a studiare per progredire e lenire i mali della società umana e della folla. La scienza è patrimonio di tutti, e deve quindi con­correre alla felicità di tutti.

Giuliano. — Oh! come avete ragione! Anche io sono di questo parere. Facciamo diventare uno zotico coltivatore di rape un angelo buono? E perchè non insegnarne il metodo a tutti? Quando la ri­cetta vi è, è facile donare e facilissimo rifare. Non è necessario far l’avaro, lo spilorcio, per poi godere della miseria altrui. E poi, come ben dite, ed in questo vi approvo e vi elogio, che cosa è la scienza? Il  patrimonio intellettuale umano che viene sfruttato, in tutte le contingenze della vita, per la felicità materiale dei vivi in terra. Volta ha dato la luce elettrica, Marconi il telegrafo senza fili; per­chè gli alchimisti non dovrebbero spiattellare alle Accademie il ri­sultato delle loro investigazioni? La cosa cammina da sè; non so perchè non si dovrebbe imbandire la mensa ai poveri della scienza quando la scienza è la grande ricchezza inesauribile dell’umanità!

Discepolo. — Dite sul serio che siete d’accordo con me?

Giuliano. — E perchè dovrei mentire? Tutto sta a rinvenire questo portentoso alchimista che ha trovato il bandolo della imbro­gliata matassa alchimica e ne ha fissati bene i principi per volga­rizzarli, alla porta di tutte le borse. La verità inconfutabile è che non ne conosco alcuno che sia arrivato al punto da aprire un em­porio alchimico a buon mercato.

Discepolo. — Ma poco fa mi avete detto che conoscevate un al­chimista vero, italianissimo, ora morto, che faceva da vivo l’arpa­gone avarissimo e che disapprovava qualunque propaganda vostra per questa filosofia speciale che dal grosso pubblico, a prima vista, vi fa prendere per dei matti o per persone che sognano ad occhi aperti... e che sono pazzi lo stesso.

Giuliano. — Questo amico non è da contare, perchè era alchimi­sta di tempi passati, di secoli già scorsi, criticati da noi come poco liberali a causa della scienza che doveva per forza svolgersi nell’orbita delle teorie religiose. Come ben sapete, mio ottimo amico, ciò che è carattere formato nella prima educazione, non si cancella. Educato al risparmio, camminò attraverso i secoli con grande econo­mia di atti e parole.

Discepolo. — Non mi confondete con frasi nuove! Che cosa vo­lete dire che egli camminò attraverso i secoli? Questo vostro italia­nissimo alchimista è stato un mistico eroe come quelli che si con­tengono nelle storie favolose delle religioni morte?

Giuliano. — Se avete bisogno di una spiegazione io ve la darò, e mi sbottono il soprabito in tutta confidenza con voi con cui, in fine, vado d’accordo sull’assoluto dovere che hanno i sapienti di do­nare all’umanità il risultato dei loro studii. Che siano deplorati co­loro che posseggono e non dànno! Il bene dell’umanità ha per fonte l’inesauribile progresso della mente dei pochi che eccellono essendo dotati degli elementi essenziali atti a scoprire o inventare cose nuove e utili. Vi dico quel che vi dico, in tutta confidenza, purché non mi facciate il tradimento di ripeterlo e di stamparlo, perchè sarei assalito da aspre critiche e insultato per il mio modo di parlare e di pensare, poco rispettoso, delle tradizioni magiche. Di alchimisti veri ve ne devono essere stati e ve ne sono, non dico di no. Sotto la luce del sole tutti i fenomeni sono possibili: quelli che conoscia­mo, quelli che sospettiamo e gli altri che non crediamo e ignoriamo; ma, a dirvi la verità, io non so come prendere e come intendere certe mirabolanti storielle che mi raccontava il mio amico. Parlava come tutti gli alchimisti hanno dovuto parlare ai profani nei diversi secoli e nelle diverse lingue da quando il mondo è stato partorito da Giunone; perchè qui e là si trovano, nei libri e nei manoscritti antichi, delle parole, delle frasi, dei ricordi che mi suonano all’orec­chio come se li avessi ascoltati dalla viva voce del mio amico per­sonale. Egli mi diceva che facevo male a filosofare in pubblico sul­l’Ermetismo e sulla Magia, perchè le folle degli studiosi non mi avrebbero dato il tempo nè di mangiare un boccone di pane, nè di riposare, nè di dormire. Mi citava Ireneo Filalete che nel suo Introitusha parlato chiaramente per raccomandare che bisogna fare l'oro con prudenza dovendo poi giustificare, con ragioni volgari, il modo con cui siamo venuti in possesso di tanto nobile metallo, se in porto non è arrivato dagli oceani nessun vascello che ci permetta di dire che il capitano ce ne ha donato. L’amico insisteva che Fila­lete voleva alludere non all’oro, ma alla verità che non si doveva mostrare, appunto come l’oro che non deve esser messo alla portata della cupidigia dei miserabili, che diventano ladri ed assassini per volontà di godimento. Quando egli biasimava l’inizio della mia opera, io  gli rimbrottavo che quelle sue idee erano antiche, allorché tutto era insicuro, e, per continuare il discorso alla maniera dell’introitus, gli ricordavo che i secoli passati differivano dagli attuali, in cui l’oro coniato in tutte le nazioni e le monete e i fogli da mille lire si tengono esposti nelle vetrine delle banche. E passando alla scienza che l’oro simbolizza, facevo osservare che erano trascorsi i tempi della tirannia religiosa, e che la vera filosofia non teme nè persecu­zioni nè ladri. Voi — dicevo io — vivete con la mentalità di un’epoca che non è la nostra, con preoccupazioni anacronistiche, le quali non sono conformi all’educazione moderna e alla cultura contempo­ranea. Egli sorrideva, sorrideva, la faccia illuminata da una calma intelligenza, e istigato da me, rispondeva: Peccato originale il mio, perchè vidi la luce molti secoli fa, quando i tempi non erano questi ma la verità era la stessa. D’allora non sono morto mai definitivamente, e posso dire, come Ermete, che io sono come fui e sarò, non nascendo da un utero di donna, ma cangiando di corpo, rinascendo per mutare di corpo, nascondendo gelosamente la mia persona anti­ca, la mia identità, e, pur conservandomi lo stesso, cangiando approssimativamente la figura esterna e non dicendo mai al profano quello che fui, che cosa pensai, ciò che penso che cosa feci, se sono com­preso tra i nomi della storia dell'umanità, se mi vollero, ricoperto di pece, bruciar vivo, se mi gridarono osanna! Vedete che la mia esperienza è più lunga della vostra, non perchè voi siate anima nuova, tutti voi siete persone di vecchia conoscenza mia, ma ad ogni rinascita siete discesi prima nell'inferno oscurissimo di un utero materno e poi rinvenuti alla luce traverso l'oblioso Lete, senza me­moria del vostro passato, senza la coscienza di quel che foste, risul­tando istintivamente tendenti a una fattività antica che si perpetua in voi per sola simpatia o per attitudine a vita già vissuta. Ed io ad ascoltarlo, sospeso, tra il credere e il non credere. E pensavo trepidante: povero e caro amico, una ruota dell’almanacco non gli gira forse bene? E’ affetto da schizofrenia sognando mentre parla? Mi corbella? Poi son restato interrogando me stesso: e se Tommaso d’Aquino, e se Pico della Mirandola, e se il Borri, il Filalete, il Rupescissa, il Trevisano, l’autore della Turba philosophorum furono alchimisti, non dovettero aver rinvenuto un secreto impensato, un Grande Arcano che permette all'uomo di eternarsi per Avatar, come dicono gli Indiani, cioè cambiando organismo fisico solamente con
l’entrare nel corpo più giovane di un adolescente? E se, al contrario, queste fossero tutte frottole di cervelli romantici che vivono di una fede tanto profonda da credere realtà viva un sogno straordinaria­ente incredibile?

Discepolo. — Non so se credervi sulla parola nella forma sincera che artisticamente rappresentate. Pare strano che interviste come le mie, nate dal bisogno di istruirmi, vadano a finire in una questione di interpretazioni che mi legano ad ipotesi curiose, che non doman­dano che di essere risolute. Da critico positivo come sempre sono stato, con l’educazione ricevuta di una serena forza di esame, mi trovo impigliato in un campo di supposizioni come in un cerchio magico, nel quale l’immaginazione si allarga in problemi insospet­tabili che, enunciati separatamente, farebbero ridere me e quanti hanno studiato come me. I dubbi, esposti da voi con la bonarietà di un espositore incredulo e pur maravigliato, mi prendono e mi attirano, e due voci io ascolto in me. La prima/mi dice: costuise è maestro dell’arte, t'imbroglia. La seconda mi soggiunge: ma no, vedi come è franco, come ti parla col cuore in mano! A chi credere? Alla prima che nega o alla seconda che mi trascina? Anche infetto di filosofia pitagorica, non saprei quale delle due sia quella che possa decidermi a dire : Numen dixit.

Giuliano. — Non mi riguarda la vostra fiducia. L’opinione è libera e non s’impone. In fondo non posso obbligarvi al mio modo di vedere, e più in fondo ancora, non so darvi la mia precisa inter­pretazione. Capirete che certe questioni, per quanto sbalorditive e non usuali, vi lasciano campato in aria, come in un pallone apo­statico che, mancando di apparecchi direttivi, non sapete se scende o sale.

Discepolo. — Anche voi non affermate e non negate, e mi sem­brate sincero.

Giuliano. — E debbo esserlo, perchè un dogma fondamentale della magia ci insegna che per conoscere la cosa e la sua natura, la sua forza e torma, bisogna essere la cosa stessa. Direi anch’io di essere un alchimista come quello che ha detto tanta roba a me, per capire ciò che la cosa sia o non sia.

Discepolo. — A questo punto mi sento di parlarvi con eguale franchezza. Rivolgendomi a voi, come fondatore di una Scuola Er­metica, io ero persuaso che potevate rispondermi affermativamente a tutte le questioni che vi proponevo, con cognizioni di pratica e con coscienza; invece devo constatare che intorno a certi problemi siete ancora nel campo delle ricerche. E dire che la maggior parte di quelli che hanno lette le vostre opere vi credono un alchimista, mentre voi, di alchimia, non avete praticato niente!

Giuliano. — Andiamo adagio; io vi direi una menzogna ne­gando. Un uomo come me, che ha dedicato cinquantanni a studiare queste cose praticamente, non è possibile che non abbia praticato, saggiando, provando, iniziando lavori di questo genere. Io ho cercato, ho tentato di tradurre in pratica il risultato delle mie meditazioni, ma, intanto, non sono ancora arrivato a risultati che mi permettono di giungere ad una conchiusione concreta. E voi tanto più ve ne accorgete perchè non ho presentato niente di veramente scientifico e probante innanzi ad alcun consesso di dotti per dimostrare cosa che metterebbe in rivoluzione tutti gli scienziati del mondo. Non vi ho detto, con la più grande schiettezza, che ogni ritrovato scien­tifico deve essere patrimonio di tutto il mondo degli studiosi?

Discepolo. — Avete avuto la disillusione più completa e intanto non vi arrendete a pronunziare la vostra risposta negativa : che nien­te esiste di tutte le chiacchiere dei pretesi alchimisti. Resta in voi
il   principio fondamentale, che poi è puro misticismo, che ancora cercando potreste rinvenire la chiave che apre le porte della classica alchimia. E, a conti fatti, dei vostri tentativi ed esperienze non vi è restato nulla, perchè niente avete detto neanche di questi.

Giuliano. — Quantunque sia tardi per continuare, tuttavia posso dirvi che sono riuscito ad avvicinarmi a qualche risultato maraviglioso. Mancano gli elementi, che formano le leggi scientifiche propriamente dette, per farne un resoconto o un esposto a qualche grande accademia di scienziati, però niente vieta che io ne parli nel prossimo giorno in cui ci rivedremo per intrattenerci di nuovo con sincerità della pratica interpretativa di quello che gli altri hanno lasciato scritto, e vi dirò come io creda d’essermi avvicinato alla formazione di quel Farmaco Cattolico o Universale che potrebbe far mutare l'orientamento della medicina moderna, per mezzo della quale elementare conoscenza ho pensato di rendere probante un esperimento di Scuola e di Medicina Ermetica.

Discepolo. — Comprendo che ora è molto laborioso per voi con­tinuare, e verrò a trovarvi al più presto, ma prima che vi lasci vorrei domandarvi, per favore, il nome dello scomparso alchimista italia­nissimo di cui mi avete detto non so se bubbole o verità.

Giuliano. — Nel prosieguo ve lo dirò, un nome può dirsi. Ve lo confiderò per dimostrarvi che io voglio tutto palesare per il bene degli studiosi. Ma egli mi ha lasciato erede di un cumulo dimano­scritti non facili a leggere, in caratteri fittissimi e pieni di disegni e geroglifici che forse mi daranno la chiave, se non di tutto, almeno della costituzione del Farmaco Cattolico di cui vi ho parlato poco; forse, se niente me lo vieta nel testamento, potrò sottoporre al vostro esame anche quanto ha scritto, carte e disegni.

Discepolo. — Posso venir presto per esaurire questo capitale ar­gomento tra gli argomenti dell'Ermetismo?

Giuliano. — Vedete, siamo al plenilunio, non la prendo a lungo. Venite a trovarmi il primo giorno della luna nuova. In quella sera Saturno è assente.

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