Al Caos segue, come il figlio al padre, l’Abisso stesso, ovvero l’Orco: difatti ad un principio vuoto e ad uno spazio infinito consegue una disposizione, un bisogno o un aspirare infinito, come recita quel proverbio secondo il quale «il bisogno genera l’appetito».

Col nome di Orco intendiamo dunque una sorta di voragine vasta e infinita, che unisce agli attributi del vuoto il fatto di poter concepire tutto, desiderare tutto e attrarre tutto. Dichiariamo che viene indicato dalle trenta caratteristiche che seguono ci è impossibile, infatti, presentarne l’idea o la forma.

1 – Lo chiamano dunque Orco e Abisso per la sua ampiezza, che coincide con quella del Caos suo padre: da un vuoto infinito e privo di tutto consegue infatti un’aspirazione infinita.

2 – Gli è stato dato il nome di Acheronte, ovvero di «implacabile», a somiglianza di chi, oppresso da un continuo bisogno, non è mai abbastanza sazio: e certo è il più implacabile degli enti, poiché è simbolo di ogni privazione e di tutto quanto si oppone e contraddice all’esistenza.

3 – Si crede che rigetti tutto quanto non lo sazia, perché un ente infinito, commisurato a un desiderio infinito, non ammette proporzione o unione con il desiderio infinito.

4 – Attraverso il pozzo delle Beli è indicata la sua brama senza limiti: per quanto abbondante, l’acqua riversata in essa continuamente scorre via, come zampillando da un vaso forato, e dunque non contribuisce affatto a riempire la voragine, né la avvicina alla pienezza.

5 – Si allude in questo modo al desiderio che ha per oggetto il fine senza fine e che, di conseguenza, deve essere ugualmente infinito: l’appetito che fa seguito al vuoto infinito e alla privazione infinita non ha come suo termine un oggetto certo, definito e determinato, ma aspira a un bene in pari misura infinito e indeterminabile.

6 – Ben gli si adatta l’epiteto di avido: qualunque sia l’oggetto concupiscibile o appetibile che gli viene offerto, se giudica di poterlo comprendere entro di se, non servirà a soddisfarlo, quasi non fosse altro che nulla.

7 – Non senza ragione viene indicato dal corpo di Tizio, che occupa nove ingeri, vale a dire tre volte la triplicità (la quale costituisce ed esprime il numero perfettamente perfetto, ovvero l’infinito sfericamente perfetto), e il cui fegato di giorno in giorno rinnovato non può saziare la fame (anch’essa continuamente rinnovata) dell’avvoltoio. Se una brama infinita avrà difronte a se un oggetto o un sostrato finito, non potrà mai saziarsi; se non troverà nulla, sarà vana, ma sé troverà sempre un sostrato finito, e tuttavia tale da non avere mai fine, di modo che, per così dire, possa essere perennemente divorato, allora ciò che si presenta non cesserà mai di svanire, e ciò che svanisce non cesserà mai di presentarsi. Allo stesso modo una intelligenza finita e una volontà finita hanno per oggetto un bene infinito: infatti, se mai potessero comprenderlo tutto e saziarsene, non sarebbe in un bene, in quanto verrebbe meno il motivo che lo rende desiderabile. Per essere sempre un bene, dovrà essere perennemente desiderabile; per essere perennemente desiderabile, non dovrà mai saziare. E dunque, non sarà mai del tutto assente: se non si comunicasse completamente, non sarebbe infatti completamente bene; né sarà del tutto presente: sarebbe allora finitamente bene e, di conseguenza, la sua bontà sarebbe determinata, anzi talvolta verrebbe meno, quando cioè saziasse e uguagliasse un ente finito.

8 – E’ simboleggiato dal carcere dei Giganti, che, dicono i poeti, è così vasto da profondarsi sotto la terra tanto quanto il cielo si innalza sulla terra; e questo significa che l’estensione del desiderio e del bisogno è pari a quella del bene; un bene semplicemente infinito presuppone un’aspirazione infinita, un principio capace di afferrare l’infinito, una brama che desidera senza limiti.

9 – Lo dicono, «Caos di Notte eterna», perché antico, ne esiste alcun principio più antico di lui che possa uguagliare suo padre, il Caos, uguagliando, come si è detto, la sua capacità di contenere: nessuna capacità di contenere può infatti superare quel principio che è la capacità stessa, così come niente è più povero e insaziabile di quel principio che è la privazione in se e l’essenza stessa della brama.

10 – Dicono che assorba in sé tutto; come ha la potenza di produrre l’infinito, la potenza di contenere l’infinito, così ha anche la potenza di comunicare l’infinito e di protendersi a toccare l’infinito: l’esistenza di un termine implica infatti l’esistenza dell’altro, e la scomparsa dell’uno dissolve anche l’altro.

11 – Tra l’Orco e la pienezza assoluta dicono sia interposto «un vasto caos», poiché, medio tra un desiderio così vigoroso e un bene tanto grande, la madre Notte e il padre Caos hanno generato l’opera immensa dell’universo.

12 – Lo dicono cieco, confuso, poiché non ha alcuna forma e figura, e di conseguenza non è conoscibile, così da non essere figlio degenere di suo padre, il Caos.

13 – Ma neppure lo stesso Orco può concepire una qualche sensazione o nozione di sé; al contrario, è immagine archetipa e ricettacolo nel quale si compie la perdita di ogni senso e memoria: per questo, infatti, narrano che da esso scaturisca e in esso rifluisca il fiume Lete.

14 – Lo intendono padre di ogni vicissitudine, poiché ogni realtà connessa all’ombra e al Caos, in quanto partecipe della sua stessa privazione, viene giudicata affetta, per così dire, dall’influenza della madre; in virtù di questo principio, dunque, tutte le cose desiderano essere tutto; di tutte le singole cose, voglio dire, non ne esiste una che non brami tutto quanto l’essere: l’impulso dell’Orco e della Notte sua figlia le spinge infatti a rifiutare ogni luce finita e determinata, per non sembrare discendenti degeneri del loro progenitore, il Caos.

15 – Come il padre Caos, da parte sua, manca di tutto, così la nipote Notte tutto ricerca: nel mezzo sta il figlio Orco, che tutto brama.

16 – Il Caos non si muove, e di conseguenza non ha nemmeno un luogo in cui giacere in quiete (non ammette infatti né moto né quiete, né lo si può definire senza movimento); allo stesso modo, l’Orco si limita ad indicare la quiete: non vuole infatti (né può volere) che il proprio desiderio si dissolva per causa sua. La Notte insegue invece la quiete e il bene: poiché incorre sempre in realtà particolari, si avvicina quasi con sdegno, e procedendo successivamente per ogni sua singola parte, cerca quel tutto che simultaneamente non può afferrare in ogni sua parte. E pertanto l’Orco indica quella quiete che la Notte insegue.

17 – L’Orco non si trasfonde nel cielo e nel mondo della luce, e nemmeno può desiderare di farlo, poiché in questo modo cesserebbe di essere se stesso e, in ultimo, verrebbe meno l’ordine dell’universo; e, del resto, solo con una interpretazione capziosa dell’attributo qualcuno potrebbe ipotizzare che la privazione non sia privazione o che il principio da cui germina il desiderio si possa trasfondere nel bene desiderabile: una volta annullato il principio del desiderio, non può infatti sussistere alcun bene desiderabile, così come, una volta annullato il bene desiderabile, non può sussistere alcun principio di desiderio. E’ dunque necessario che esista l’universo della luce e della pienezza e dello spirito; ma è altrettanto necessario che esista l’universo in cui questi principi possano vedere, spirare, portare pienezza. E così questo desiderio è tale da non voler mai cessare di essere desiderio, allo stesso modo in cui nessun ente può voler essere non ente. E pertanto dicono che il desiderio dell’Orco tende a indicare, quello della Notte a perseguire.

18 – Per tale ragione lo dicono Acheronte, Cocito, Stige e Flegetonte: e non certo perché questa voracità sia triste, lacrimosa, dolente, dal momento che l’essere proprio dell’Orco è piacevole e gradito a lui, e altrettanto buono e necessario alla natura. Per un motivo simile, appunto, «Plutone non invidia Giove», né può invidiarlo. Sentimenti del genere, invece, si definiscono non tanto affezioni subite dall’Orco, quanto piuttosto affetti impressi dall’Orco negli stessi enti che risultano dalla composizione di luce e tenebra, vale a dire, negli enti che hanno la Notte per madre e il Cielo per padre: se in essi domina la luce, si dolgono della «valle tenebrosa»; se prevale in essi l’eredità materna, odiano il cielo e si inclinano verso l’Orco.

19 – Il Caos è informe, l’Orco non è ricettivo di forme, e la Notte è tale che sempre riceve forme, mai è pienamente formata. Dei tre principi, dunque, l’Orco occupa la posizione intermedia: permane infatti nella propria natura informabile, e, per quanto lo desideri, non riceve alcuna forma; a un estremo il vuoto, ossia il Caos che non riceve forma, e giammai lo desidera; all’altro la Notte, che sempre riceve forme e sempre ne desidera di nuove.

20 – E’ un male, ma è anche tale che, se un male simile non esistesse, non sarebbe bene. Questo male fa si che il bene sia necessario, poiché, se si elimina il male, non esiste più desiderio di bene: per quale altra ragione, infatti, il bene verrà giudicato degno di essere magnificato, desiderabile, glorioso? E’ dunque necessario che l’Orco esista, quasi fosse l’estensione dei mali.

21 – Il sommo bene non è generato né generabile: lo stesso vale per il principio contrapposto alla sua pienezza, il Caos, e per tutti gli altri che ne conseguono. Su questo tema non ci crea problemi il fatto che, come abbiamo detto sopra, il Caos sia in un certo modo il padre dell’Orco, e l’Orco il padre delle tenebre, ovvero della Notte: secondo il nostro modo di intendere, infatti, sussiste tra loro una sorta di ordine e di dipendenza reciproca, non una relazione causale o un rapporto di derivazione successiva.

22 – Dicono che al suo ingresso dimorino lutti, malattie, rimorsi vendicatori, per mostrare come la potenza dell’Orco, ovvero la sua influenza, comunicandosi alla Notte sua figlia mediante una propagazione seminale, generi ogni alterazione e mutazione, che sono i semi da cui germinano corruzione e morte. Alterazione e mutazione sono infatti atri e porta della morte e della corruzione; davanti a loro si aprono dunque le fauci dell’Orco, poiché tutte queste cose vengono assorbite, travolte da quella stessa che abbiamo definito voracità abissale dell’Orco.

23 -  Le catene che si trovano in questo luogo alludono alla necessità inesorabile del fato, che tutto vincola e costringe.

24 – Il fuoco stesso è l’eletto divampante e attivissimo scaturito dall’esplicarsi dell’atto: si radica infatti su questo desiderio, e si intende che esso in un certo modo converta tutto in se stesso e tutto attragga in se stesso, così come il fuoco, attivissimo tra gli elementi, sembra in grado di convertire tutto in se stesso in virtù di un principio simile.

25 – In questo luogo, come raccontano, si trova la ruota dove Issione «segue e fugge se stesso»: con ciò si allude al desiderio dell’Orco, che desidera sì tutte le cose, ma non in modo tale da poter affermare che esso, poiché non può desiderare se stesso, desidera il nulla: il caso contrario, se non cercasse invano di fuggire dalla propria natura, occorre che non sia più Orco, ma cielo; allo stesso modo, se potesse seguire fino in fondo la propria natura, non sarebbe più infinito, anzi neppure vi sarebbe più alcun desiderio: è così, se non desiderasse niente, non sarebbe più Orco.

26 – Raccontano che lì Sisifo spinga a forza una pietra fino alla sommità di un monte: e questa subito nella medesima verde pianura mostra che tale è l’impulso che spinge la privazione verso la luce, la forma e la regione dell’essere, così da sottrarsi al proprio essere, ovvero alla regione paterna del vuoto.

27 – Raccontano ancora che lì Tantalo abbia sempre davanti a sé delle vivande, di cui tuttavia non può mai saziarsi: per dimostrare come l’appetito sia perenne compagno della privazione.

28 – Si racconta che le Erinni, in quanto Furie, abbiano lì la loro dimora come dee implacabili: questo perché l’Orco, la privazione, è luogo e causa di ogni ira, indignazione, invidia e di ogni altro sentimento simile.

29 – In quello stesso luogo, dicono, fu gettato il centimano Briareo, che continua a scagliare cento massi contro Giove: questo per mostrare come la privazione sia causa di ogni crimine e peccato. Ogni peccato viene infatti definito mancanza in quanto dipende dal mancare e dal difettare e, di conseguenza, dall’essere privo di qualcosa: i crimini rientrano dunque nel genere non dell’effetto, ma del difetto, e per questo dimorano nella regione dell’Orco, e da qui portano avanti la loro guerra contro il regno della luce.

30 – Allo stesso modo in cui, da un lato, siamo tanto più vicini a cogliere la pienezza e la luce quanto più la giudichiamo incomprensibile, così anche siamo tanto più vicini a conoscere la regione della privazione e delle tenebre quanto più la concepiamo indefinita e indeterminata.

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