26. Se ritieni, come del resto è noto, che
la memoria sia legata a un organo corporeo, bada però a non contrarre ad esso
la facoltà dell’anima, quasi spingendola all’introspezione. Così accade a
quanti suppongono di procacciarsi la reminiscenza e richiamare le immagini
sfuggite – ovvero di distinguere le figure confuse e di definire quelle oscure
– facendo accorrere ad occhi chiusi lo spirito nella testa. Ma proprio questo
modo di procedere rivela come gesti simili rendano sempre più fiacca l’opera dell’animo:
quanto più quelli insistono e si tormentano, tanto più diventano smemorati.
Tralascio poi l’analisi di altri affetti dell’animo, che è sospetta e degna di
condanna al sopracciglio degli ipocriti. Ed ecco che i poveretti ora si portano
la mano alla fronte, ora si colpiscono la nuca, ora si raschiano la testa con
un dito: ma l’esperienza testimonia che così facendo si perde anche la piccola
speranza di ricordare quanto c’era prima.
27. E certo non so quale potere sacro sia
nella mano, che in individui equilibrati e abituati a nutrirsi con misura e
sobrietà concilia sogni divini, conduce alla vista delle rivelazioni bramate,
ne nutre e conserva il ricordo; ma che posta sulla testa del dormiente – o
bruscamente allontanata al risveglio – o corrompe del tutto la memoria del
sogno oppure, se anche si ricorderà di aver sognato, non gli tornerà più in
mente che cosa; e quanto più debole o meno tempestivo è stato il contatto con
la mano, tanto più stentato e mutilo sarà il ricordo. Sappiamo del resto che
l’abitudine di quanti generalmente non sanno trattenersi dal toccare la testa
accostandovi sempre la loro mano è segno – di per sé evidente, anche se noto a
pochi – di insigne stupidità. A stento dunque comprendono il mistero di certi
Galilei che repentinamente si trasformarono in teologi sommi e che con
l’imposizione delle mani conferivano anche ad altri la medesima capacità.
Ritengo dunque si debba stare molto attenti a non farsi mettere
indiscriminatamente sulla testa la mano altrui. Ma torniamo adesso al punto da
cui ci siamo allontanati.
28. Non credere – voglio dire – che la
memoria si produca o si acquisti più per introspezione che per visione o
previsione: discende infatti da una sorta di effusione, per mezzo della quale
una cosa pur distante e separata viene comunque contemplata, non dico dagli
occhi, ma da una facoltà innominata dell’animo che si ritiene appartenga al
genere dell’intenzione o dell’atto di intendere. Sappiamo infatti per
esperienza che un oggetto posto troppo vicino alla pupilla dell’occhio non può
essere distinto, e diventa invece visibile mano a mano che se ne allontana: e
questo a maggior ragione deve valere per l’anima, che conosciamo quanto più si
allontana dai confini della materia. Adotta dunque un intervallo adeguato; come
farai infatti – disse uno dei maggiori filosofi – a ricordare quanto grande è
il cielo, se la forma accolta internamente non poteva essere altrettanto
grande? Ricorda dunque che non bisogna contemplare le immagini che sono in noi,
ma guardare alle cose stesse attraverso le immagini che sono in noi; sebbene
infatti all’anima si faccia presente una immagine, dobbiamo tenderci con
l’animo non come per guardarla, ma come per guardare attraverso di essa. Non
c’è infatti ragione per cui tu debba credere che nell’animo si conservi come
una figura delle realtà che il senso aveva percepito, di modo che l’animo ne
sia figurato e accolga una sorta di traccia dell’impressione; se infatti così
fosse l’immagine che in un secondo momento viene a figurare l’animo avrebbe
dovuto per forza cancellare la precedente.