di Ermete Trismegisto

     L’estratto VI ha tutti i caratteri formali di un indipendente.

     Esso si apre su un prologo ben definito: Tat ricorda a Ermete la promessa che quest’ultimo ha fatto nei Discorsi Generali, di spiegargli la dottrina dei trentasei Decani, il prologo di C.H.. La risposta di Ermete è tipicamente «ermetica»: «nessuna gelosa malevolenza o Tat: e il discorso più importante e più elevato di tutti sarebbe questo; abbiamo mandato a te, o re, il grande discorso, che è come coronamento e promemoria di tutti gli altri»; Asclepio, «con discorso divino è tale che a buon diritto sembrava essere il più divino di tutti per pietà religiosa». Inoltre questo forma un insieme molto determinato: offre una descrizione del mondo celeste inserendovi, nel paragrafo sulle stelle fisse dello Zodiaco, una dottrina dei Decani. In terzo luogo, e questo punto è essenziale, termina su una conclusione che è certamente ben adatta al gusto dell’ermetismo, che si compiace di ricondurre a qualsiasi dottrina un elogio della pietà e della gnosi. Tutte queste ragioni mi inducono a considerare questo estratto VI come un logos indipendente, e senza dubbio completo in se stesso.

     Vale la pena di soffermarsi un poco a lungo sulla dottrina di questo trattato relativo ai Decani. Oltre al capitolo del Bouché, sui Decani, utilizzerei soprattutto, per questa esposizione, le due opere di Goundel.

     Di origine egizia, i Decani, sono, in tutta l’astrologia antica, «quelli che comandano su dieci gradi del circolo dell’eclittica»: ci sono, quindi, tre Decani per ogni segno zodiacale (30°), trentasei Decani per l’intero circolo (360°).

     Il loro dominio si estende allo spazio e al tempo: ogni Decano domina in particolare su dieci giorni, ossia è, per questa durata, «padrone del tempo». Già sotto il Medio Impero alcune liste di Decani servono da calendari: ripartiti in dodici campi, vi determinano le trentasei decadi o settimane da dieci giorni in cui si divide l’anno. Inoltre, essi vegliano singolarmente sulle dodici ore notturne durante le quali appaiono una volta tramontato il sole. Panfilo Galeno li chiamano ancora «oroscopi», e un’epigrafe degli architravi di Kom Ombo li presenta come padroni del tempo di un giorno e di una notte: «O Decani che apparite dopo il tramonto del dio del sole, che ogni giorno girate in circolo per prenderne il posto di notte, poiché voi incominciate a brillare la sera, quando tramonta».

     La tradizione ermetica sui Decani è altrettanto antica quanto le prime opere di astrologia attribuite a Ermete o derivate da un insegnamento di Ermete, e risale quindi al III sec. a.C. Così, Salmeschiniaca (II sec. a.C.) che Giamblico, Sui misteri, pone tra gli Ermetica, «I contenuti del Salmeschiniaca abbracciano una parte molto piccola degli scritti ermetici», rendono già noti i nomi dei trentasei Decani (chiamati anche «oroscopi», e, «capi potenti»), così come le ricette di iatromatematica [di medicina fondata sull’astrologia] relative a questi esseri divini.

     Nel II sec. a.C. il manuale di Nechepso e Petosiride include tutta una sezione consacrata ai Decani, che servirà quale fonte all’esposizione di Firmico Materno nella sua Astrologia, ora, Nechepso si presenta come divinamente ispirato, e questa ispirazione proviene da Ermete.

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