L’uomo ha da sempre visto i cinque pianeti del nostro Sistema Solare: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Esopianeta o pianeta extrasolare è il nome con cui si designano i pianeti che non appartengono al nostro sistema. Fino alla fine del ‘500 esso coincideva con l’intero Universo. Digges nel 1576 col “A perfit Description of the Caelestiall Orbes” aveva per la prima volta concepito un Universo indefinitamente grande dove le stelle lo popolavano uniformemente. Giordano Bruno nel 1584 si spinse oltre e nel "De l’infinito Universo e Mondi" afferma: "Uno dunque è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale, l’eterea regione per la quale il tutto discorre e si muove. Ivi innumerevoli stelle, astri, globi, soli e terre sensibilmente si veggono, ed infiniti raggionevolmente si argumentano".
     Cartesio elabora una complessa teoria di vortici col quale spiegare le regioni di influenza entro cui si originano le stelle, e nelle quali non vi è ragione alcuna di non supporre la formazione pure di pianeti ed altri corpi minori. La licenza poetica ariostea dell’”Orlando Furioso” popola la Luna di esseri e Keplero fa altrettanto col suo fantascientifico “Sogno”. Voltaire nel Micromega riempie il Sistema Solare di abitanti nani e giganti coi quali si intrattiene il protagonista proveniente da Sirio, prima di imbattersi nei terrestri. Frattanto Herschel, se da un lato ampliava la famiglia del Sistema Solare scoprendo Urano nel 1781, dall’altro lato trovava pesanti indizi a sostegno delle parole di Bruno constatando che la nostra Galassia era una regione smisurata, di forma allungata, contenente un imprecisato ma enorme numero di stelle paragonabili al Sole. Nel secolo successivo Galle, Piazzi e tanti altri ampliavano ancora la famiglia del nostro sistema scoprendo rispettivamente Nettuno e molti corpi minori, ma l’uomo pur essendosi ormai assuefatto ad accantonare ipotesi narcisistiche dove il Sistema Solare fosse unico, ancora era impensabile scoprire pianeti esterni. Era ragionevole supporre al loro esistenza ma fino a pochi anni fa non potevamo osservarli, data l’estrema lontananza. Un ipotetico pianeta, grande quanto la Terra, sulla stella più vicina dopo il Sole, Rigil (a) Centauri, risulterebbe grande quanto una moneta da 1 euro a 70 milioni di km (a metà strada fra noi e il Sole). Per giunta, se di pianeta si tratta, dovrebbe brillare di luce riflessa dalla stella, la quale di conseguenza sarebbe così angolarmente accostata da rendere ancor più ardua l’osservazione. Fatti salvi alcuni falsi allarmi fra 8 e 900 (il primo segnale rivelatosi poi infondato risale al 1855, un altro nel 1890 ed ancora negli anni ’50 e ’60), nel 1988 Campbell, Walker e Yang affermarono di aver scoperto un esopianeta attorno a g Cephei. Essi rimasero cauti nell’asserire la loro scoperta e la comunità scientifica si mostrò sempre molto scettica sull’effettiva individuazione. Solo nel 2003 le migliorate tecniche hanno potuto confermarne l’esistenza. Nel 1991 Lyne, Bailes e Shemar affermarono di aver scoperto un pianeta in orbita attorno ad una pulsar ma poi ritrattarono.

 

Quella che di fatto viene considerata la prima scoperta risale al 1992 quando Wolszczam e Frail annunciarono la presenza di almeno un paio di pianeti attorno alla pulsar 1257+12. La scoperta fu in breve confermata. La notizia fece un certo scalpore soprattutto perché si pensava che una pulsar non potesse ospitare pianeti, visto che la precedente esplosione di supernova li avrebbe dovuti eliminare. Di recente Ireland, osservando Mira (o) Ceti ed elaborando simulazioni al computer, è giunto alla conclusione che le stelle allo stadio terminale della loro vita si liberano di parte del loro materiale il quale si dispone in un disco attorno alla stella. Se essa ha una compagna (ed i sistemi multipli sono più frequenti dei sistemi isolati) sussistono le condizioni dinamico-gravitazionali perché il materiale espulso vada ad accumularsi in un anello che va a circondare la compagna e dal quale si aggregheranno pianeti. Il sistema planetario di una pulsar si deve considerare quindi come un prodotto di seconda generazione, la cui formazione ha luogo in un contesto ben diverso dal nostro nel quale si crede che i pianeti si siano formati dalla nube primordiale allo stesso tempo in cui si è generata la stella, vale a dire il Sole.

Per arrivare alla prima individuazione di un pianeta in orbita attorno ad una stella paragonabile al Sole dobbiamo attendere ancora tre anni, quando, nel 1995, Mayor e Queloz annunciarono di aver scoperto un pianeta attorno alla stella di sequenza principale 51 Pegasi, grazie ai telescopi dell’Osservatorio di Haute-Provence.

Nel 2007 conoscevamo già circa 200 esopianeti, oggi abbiamo superato il migliaio e le scoperte proseguono ad un ritmo incalzante anche perché i satelliti in orbita, quali ad esempio Kepler, sfrutta metodi semiautomatici.

Ricordando le difficoltà di individuazione, è bene precisare che la scoperta di regola non consiste nella sua diretta osservazione, il primo osservato fu 2M1207b a cui poi se ne sono aggiunti altri, ma nella deduzione in base agli effetti indotti sulla stella progenitrice. Vediamo dunque di analizzare i metodi utilizzati.

Recentemente la NASA ha annunciato di aver scoperto, grazie a Kepler, un pianeta appena il 60% più grande della Terra, con una massa di circa 5 volte. E’ un bel risultato, tenendo pure conto che l’oggetto dista 1400 anni luce da noi, bisogna però ricordare che si tratta di una scoperta fatta dalla sonda Kepler, la quale è stata mandata nello spazio proprio per questo.

A fronte dei primi clamori però, sembra che gli entusiasmi siano stati raffreddati da ulteriori analisi. Nonostante il volume ridotto deponga a favore di una natura rocciosa non abbiamo la certezza che il pianeta non sia gassoso, un po’ come un Nettuno in miniatura. La zona dove orbita è quella detta di abitabilità perché la distanza dalla stella permetterebbe all’acqua di sussistere allo stato liquido, un requisito fondamentale per ospitare forme di vita almeno come noi le conosciamo. Dalle prime indagini sembra però che l’esopianeta non abbia un campo magnetico. Ciò significa che se aveva un atmosfera gliel’ha progressiva strappata via la stella nel corso dei 6 miliardi di anni e dunque le speranze di poter trovare una qualche forma di vita sembrano svanire.

Sempre nel 2015 Kepler aveva studiato anche un’altra stelle: la 432 scoprendo anche intorno ad essa l’oggetto classificato come Kepler432b. Anch’esso è un buon indiziato per essere una sorta di copia della Terra. La Nasa infatti, ogni volta che si scopre un nuovo pianeta dà un parametro, il quale tiene conto di diversi parametri (massa, raggio, velocità di fuga e altro). Più il valore è vicino a 1 più è simile alla Terra. Kepler 452b ha raggiunto il valore 0,82, ma Kepler 432b ha toccato quota 0,88. 

Metodi d’individuazione

 

Astrometria - consiste nel visualizzare una stella e nell’osservarne le variazioni di posizione nel corso del tempo rispetto allo sfondo del cielo. L’influenza gravitazionale di un pianeta causa il movimento attorno al comune centro di massa. Lo spostamento non può essere imputato ad una stella, altrimenti dovrebbe risultare individuabile, bisogna tuttavia riconoscere la difficoltà della tecnica data l’esiguo spostamento angolare a cui vanno soggette le stelle.

Velocità radiale - si tratta di applicare l’effetto Doppler. Le variazioni di velocità verso la Terra o in allontanamento possono essere dedotte dal dispiegamento delle linee spettrali della stella genitrice. Finora si tratta del metodo che gode di maggior successo.

Pulsar timing - - Le pulsar emettono onde radio con estrema regolarità. Delle lievi anomalie possono essere imputate a periodici allontanamenti e avvicinamenti della stella causati dalla presenza di un pianeta. Naturalmente il metodo consente di individuare solamente i pianeti che orbitano attorno a pulsar.

Transito - se un pianeta passa davanti al disco stellare della stella genitrice ne blocca parte della radiazione. Non possiamo vedere il disco nero del pianeta ma l’abbassamento di luce prodotto dal suo interporsi. L’abbassamento di luce dipende dalle dimensioni del pianeta ed in maniera marginale anche dall’inclinazione e distanza dell’orbita rispetto alla linea di vista terrestre. Il metodo, buono in linea di principio, può essere camuffato dalla presenza delle macchie stellari (l’analogo delle macchie solari sulle stelle) che diminuiscono la radiazione superficiale. La periodicità, meglio se di corto periodo, dovrebbe scongiurare questi abbagli. Purtroppo l’inconveniente principale è che sono pochi i pianeti la cui orbita li porti a transitare davanti alla stella.

 Microlente gravitazionale - la relatività dimostra che un campo gravitazionale deflette la luce. Un corpo si comporta come una lente (gravitazionale), aumentando la luce di una lontana stella che si trova sul prolungamento della linea di vista tra noi ed il pianeta. Quello che osserviamo, in realtà, potrebbe essere anche l’effetto cumulato della stella genitrice e del pianeta, che contribuirebbe in percentuale. Al momento si tratta del fenomeno più elusivo. Allineare tutti i protagonisti della scena in un universo fondamentalmente vuoto è assai improbabile, per cui anche se l’effetto fosse consistente, ben raro sarebbe trovare dei pianeti con questa tecnica. Un progetto, denominato Optical Gravitational Lensing Experiment, portò all’individuazione di 46 candidati ma nessuno fu confermato.

Disco circumstellare - I dischi di polvere circondano molte stelle. Essi sono facilmente identificabili tramite un’analisi spettroscopica perché assorbono la radiazione della stella e riemettono nell’infrarosso. Solitamente si tratta di dischi protoplanetari ma talvolta in mezzo possono trovarsi dei pianeti già completamente formati o in via di ulteriore aggregazione di materia.

 

Sviluppi ulteriori

 

Assodate le tecniche (indirette) il passo successivo consiste nell’individuare le caratteristiche. I pianeti scoperti finora sono piuttosto massicci, di massa confrontabile a Giove, perché altrimenti gli effetti indotti sulla stella risulterebbero troppo modesti, anche se sembra che le cose si stiano disponendo in maniera diversa. Se finora abbiamo trovato i cugini dei pianeti gassosi, la tecnologia futura, in rapido e continuo progresso, dovrebbe consentirci di vedere anche i consimili della Terra. Tuttavia già ora possiamo fare qualcosa. Abbiamo detto che i pianeti non possono essere individuati, oltre alla distanza, anche a causa dell’estrema vicinanza della stella compagna (sarebbe come vedere una lampadina in mezzo ai riflettori di un campo di calcio). Il coronografo è uno strumento che ha consentito agli astronomi di osservare la debole luminosità coronale del Sole, bloccando la più intensa radiazione fotosferica. L’espediente consisterebbe nel perfezionare un coronografo in modo da bloccare l’intensa luce della stella e permettere l’individuazione di quella debole, riflessa, del pianeta.

L’intenzione degli astronomi, e forse di tutti, è trovare i pianeti più simili alla Terra. Oltre all’individuazione di pianeti di tipo roccioso quindi, un altro ambito nel quale gli astronomi stanno impiegando molte risorse, riguarda la presenza e le caratteristiche delle atmosfere. La prima ad essere individuata fu quella dell’esopianeta HD209458b, nel 2001 grazie al telescopio spaziale Hubble. L’analisi rivelò la presenza di sodio anche se in quantità minore rispetto a quella prevista.

 

Ultime dal settore e le missioni future

 

Una svolta significativa sembra essersi verificata nel gennaio 2006. Gli astronomi hanno scoperto mediante la tecnica della lente gravitazionale un pianeta di soli 5.5 volte la massa della Terra (OGLE-2005-BLG390b). Si tratta con molta probabilità di un pianeta roccioso, quindi più simile alla Terra di quanto non siano molti altri. Dista 21500 anni luce dalla Terra mentre la distanza approssimativa dalla stella attorno a cui orbita dovrebbe aggirarsi intorno alle 2.6 UA, rendendolo l’esopianeta più freddo fra quelli scoperti.

Nel febbraio 2007 sono stati scoperti due pianeti (HD189733b e HD209458b) dei quali si è osservato direttamente lo spettro.  I dati del primo astro sono stati raccolti da un gruppo capeggiato da Grillmair dello Spitzer Science Center ma attendono ancora di essere pubblicati. Il secondo esopianeta appartiene al gruppo di quelli che transitano sul disco stellare. Alcuni dei team che l’hanno preso in esame hanno evidenziato nella sua atmosfera la presenza di nubi di silicati e una ragionevole certezza dell’assenza di vapore acqueo che, secondo i nostri modelli biologici, è l’elemento essenziale perché possano svilupparsi forme di vita. Tuttavia secondo i risultati resi noti da Barman e dal gruppo del Lowell Observatory, combinando misurazioni eseguite dall’Hubble Space Telescope con modelli teorici, i dati non escluderebbero la presenza di vapore acqueo nell’atmosfera.

Il 25 aprile 2007 sono apparsi due articoli che prendono in esame Gl581c. Si tratta di un pianeta la cui orbita ha un’eccentricità di 0.16 ed un periodo orbitale di 13 giorni. E’ distante circa 20 anni luce e situato nella costellazione della Bilancia. La singolarità di questo pianeta consiste nella massa che potrebbe aggirasi intorno tra 1.5 e 5 volte quella della Terra con dimensioni probabilmente solo una volta e mezzo maggiori (e dunque sicuramente roccioso, almeno per gli standard del Sistema Solare), ad una distanza dalla stella genitrice, una nana rossa, di 0.073 UA, il che farebbe supporre che la temperatura superficiale dovrebbe contenersi fra 0 e 40 oC. La scoperta è stata effettuata con il sistema HARPS (High Accuracy Radial velocity for Planetary Search) dell’ESO installato sul telescopio di 3.6 metri di diametro presso La Silla in Cile. Tra gli scopritori vi è anche Queloz, che nel 1995 scoprì il pianeta attorno a 51 Pegasi.

Il pianeta tra l’altro non è solo. Attorno a Gl581 ruotano almeno tre corpi. Anzi, per la verità, il pianeta non è stato individuato direttamente, ma ne sono stati evidenziate le perturbazioni sui compagni. I due restanti di massa rispettivamente 8 e 15 volte quella della Terra appaiono meno ospitali: uno orbita in 5 giorni, troppo vicino alla stella madre, l’altro, in 84 giorni, troppo lontano. Ancora è presto per dire se il pianeta c, oltre alle ottimali condizioni di temperatura, presenti un’atmosfera ed in caso di risposta affermativa, se essa contiene ricche quantità di vapore acqueo (e dunque se fosse appetibile per i nostri standard biologici). Possiamo comunque affermare che ai primi risultati ne seguiranno altri. Siamo sicuri della nostra affermazione per l’interesse che tutta la comunità scientifica sta dedicando al settore e per le parole di Delfosse, uno degli scopritori, che ha dichiarato l’astro come uno dei primi obiettivi delle future missioni che partiranno alla ricerca di vita extraterrestre. Una missione è già partita. Il 27 dicembre scorso è stato lanciato il satellite Corot, la cui sigla (COnvection ROtation and planetary Transit) evidenzia fra gli scopi precipui quello di osservare il transito di pianeti esterni sulle superfici stellari e determinarne quindi le caratteristiche salienti. Corot è un occhio infrarosso di appena 30 cm di apertura, ma ha il vantaggio di osservare da fuori dell’atmosfera, al riparo da tutte le fonti di disturbo. Si tratta di una postazione davvero invidiabile. Inoltre la speciale camera è in grado di rivelare variazioni di luminosità di una parte su centomila, afferma Fridlund, scienziato progettista della missione. Possiamo peraltro affermare che l’uso di sonde dedicate ai cugini della Terra non si esaurisce con Corot. Nel novembre 2008 è stato messo in orbita Kepler, con l’intento precipuo di individuare pianeti extrasolari di dimensioni paragonabili a quelli terrestri e perfino più piccoli! Kepler sfrutta il metodo fotometrico del transito ed analizza alcune migliaia di stelle candidate nella regione del Cigno. Per l’immediato futuro la NASA sta lavorando al progetto TPF (Transit Planetary Finder). Picard sarà impegnato in misure solari ma anche nella caccia agli esopianeti e l’ESA ha già in cantiere Darwin (ben sei satelliti che voleranno in formazione intorno alla Terra).

Anche qualora dovessimo trovare un esopianeta ospitale, la tecnologia attuale non ci consentirà di raggiungerlo. Tuttavia l’idea di poterlo vedere ci renderebbe più felici. Abbiamo difatti detto che se ne suppone l’esistenza sulla base delle perturbazioni che induce sui suoi compagni.

 

Ricerca da Terra

 

Se solo il potere risolutivo e la luminosità della stella centrale ci impediscono la loro osservazione diretta, la soluzione più ovvia consiste nell’aumentare il potere risolutivo dei telescopi di terra. Saremmo già in grado di realizzare telescopi terrestri da 100 metri (il telescopio avrebbe già un nome: OWL Over Whelmingly Large, che in inglese significa anche gufo). Tra i problemi da affrontare sono i fondi insufficienti. Tuttavia le varie agenzie sono impegnate su più fronti con lo scopo di portare a compimento telescopi di almeno 30 metri di diametro. Un progetto molto ambizioso ma che al momento sembra ben avviato vede impegnata l’ESA nella realizzazione, prevista per il 2017, dell’E-ELT (European-Extremely Large Telescope). Un telescopio di 42 metri di diametro. Con simili mostri si potrebbe sperare anche di vedere monetine da un euro anche sulla superficie del Sole.

 Il sogno, non troppo nascosto dell’uomo, rimane quello di trovare la nostra cugina, per andarvi un giorno ad abitare, ma come abbiamo detto, la tecnologia attuale non lo consente. Tuttavia non possiamo escludere che una qualche forma di vita abbia potuto attecchire anche là. E se sulla Terra si è sviluppata una civiltà tecnologica, niente ci impedisce di ipotizzare che abbia avuto luogo uno sviluppo analogo altrove. Sarà proprio così? Qualora esistessero molte civiltà, appena più progredite della nostra, perché non siamo invasi da continue visite di alieni, obiettava Fermi. SETI (Search for Extra Terrestrial Intelligence) sta scandagliando dagli anni ‘70 il cielo in attesa di un segnale radio proveniente da una civiltà intelligente, finora senza risultati. Dal canto suo Drake (nel 1962) ha formulato una celebre equazione che tiene conto del numero di stelle in formazione nella Galassia, di quelle che possono ospitare pianeti, del numero di pianeti che godrebbero di condizioni tali per cui la vita possa svilupparsi, della frazione di quelli in cui effettivamente la vita si è sviluppata, della probabilità che l’evoluzione abbia condotto ad una forma di vita intelligente ed al fiorire di una civiltà, della frazione di queste che cercherebbero (al par di noi) di comunicare a distanze interstellari e del tempo in cui una tale civiltà persisterebbe, per derivare il numero di diversi contatti che possiamo sperare di ricevere. I parametri sono molto incerti e fra ipotesi ottimistiche e pessimistiche intercorrono molti ordini di grandezza. Se però consideriamo il numero di stelle presenti ed il fatto che si è sviluppata almeno una civiltà tecnologica, allora possiamo immaginare davvero di non essere soli nell’Universo.

 Abbiamo dimostrato che il Sistema Solare non è un eccezione, trovare pianeti abitabili ed infine realmente abitati è il passo successivo, ma questa è un’altra storia.

 

Curiosità

 

Gli esopianeti sono classificati con una sigla che designa la stella, seguita dalla lettera b (minuscola). Se la stella ospita un sistema con più corpi dopo il primo gli altri prendono le lettere c, d e via dicendo. A rendere più complicate le cose, prima che prendesse piede questa nomenclatura qualche corpo aveva già assunto una propria sigla che non è stata cambiata. Così troviamo PSR1257+12A, B e C. L’IAU per ora ha deciso di non attribuire nomi propri, tratti magari dalla mitologia, anche se ogni tanto, ufficiosamente, qualche pianeta ne ha assunto uno, come HD209458b denominato Osiride e 51Pegasib denominato Bellerofonte. La scoperta di Gl581c non ha prodotto ancora nomi e la scoperta di Kepler 452b è ancora recente per cui non hanno ancora assunto nomi, ma crediamo che qualche ufficioso ma anche affettuoso nomignolo possano meritarselo. Chi ha qualche idea si faccia avanti.

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