Erano molti i colleghi invidiosi che avrebbero spedito volentieri Galileo all’inferno, prima che vi provvedesse la Chiesa bollandolo come eretico. In realtà Galileo all’inferno c’era già stato, su commissione, o per meglio dire, ne aveva prese le misure, almeno di quello che Dante Alighieri menziona nella Commedia.

Calvino, limitandosi essenzialmente al repertorio scientifico, ha definito Galileo come il più grande letterato del Seicento in lingua italiana. Non deve stupire troppo difatti che un uomo di scienza come Galileo avesse avuto modo nella sua vita di occuparsi anche di critica letteraria. Allora non esisteva una divisione netta fra i rami del sapere e il titolo di filosofo veniva preso nell’accezione etimologica del termine.

Il Favaro, nella sua Edizione nazionale delle opere di Galileo Galilei, ebbe modo di dedicare il nono volume (del 1899) ai componimenti galileiani di letteratura. I testi raccolti nel volume sono: Due lezioni all'Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell'inferno di Dante, le Considerazioni al Tasso, le Postille all'Ariosto, un argomento e traccia d'una commedia, alcune poesie e frammenti. Compaiono anche, come appendici, una canzone di Andrea Salvadori per le stelle Medicee scritta e corretta di propria mano da Galileo e un saggio d’alcune esercitazioni scolastiche di Galileo.

Le Considerazione al Tasso, che Giuseppe Iseo pubblicherà nel 1793 e le Postille sull’Ariosto, sono fogli sparsi ad uso personale, senza una loro struttura organica, scritte intorno all’età di 26 anni, cioè intorno al 1590, quando Galileo era già lettore presso lo studio di Padova. Si tratta di ben altro rispetto allo spessore culturale richiesto dal filosofo e primario matematico presso la corte medicea, qualifica col quale concluderà la sua vicenda umana. Il Viviani ricorda che il Galileo della piena maturità si intratteneva in conversazioni di critica letteraria, molto viva allora, sulle qualità dell’Ariosto e del Tasso e non era infrequente sentir tessere le lodi del primo come di sentir analizzare in profondità, anche se con parole meno benevole, il secondo.

Ma l’opera di ambito umanistico di maggior spessore sono le due lezioni tenute all’Accademia fiorentina riguardanti il poema di Dante, e Galileo, interpellato da Baccio Valori come vedremo più avanti, seppe venirne a capo in maniera magistrale.

Facciamo un passo indietro ed inquadriamo il contesto storico. Galileo, dopo aver studiato contro voglia alcune lezioni di medicina, viene introdotto intorno al 1583, spinto soprattutto dalla conoscenza e frequentazione con Ostilio Ricci, allo studio della geometria, che sembra affascinarlo di più. Compiuto il quarto anno di studi a Pisa, torna presso la famiglia a Firenze. Benché privo di qualunque titolo universitario, fa istanza al reggimento di Bologna per ottenere la lettura delle matematiche. Frattanto si è reso vacante anche il posto di lettore delle matematiche dello studio di Padova per la morte di Giuseppe Moletti. Siamo nel 1588, Galileo ha soli 24 anni, ha già scoperto l’isocronismo del pendolo ed ha già avuto modo di mettersi in luce con alcuni libelli scientifici, come La bilancetta (pubblicata postuma ma che già circolava fra conoscenti in forma manoscritta), Theoremata circa centrum gravitatis solidorum (pubblicato nel 1638), De aequiponderantibus, De his quae vehuntur in aqua.

In questo periodo era sorta una disputa letteraria fra i supporter di due eruditi ormai defunti, di cui uno facente parte dell’Accademia fiorentina, riguardante la prima cantica della Divina Commedia. L’Accademico era Antonio Manetti (1423-1497). Egli sosteneva che, tenuto conto della competenza di Dante, prima di porre mano all’opera, si fosse fatto mentalmente uno schema delle dimensioni che il suo inferno avrebbe dovuto avere. Per il Manetti doveva essere un’oscura voragine conica che si apriva sotto Gerusalemme. E che se comunque la forma fosse stata quella giusta, di quali dimensioni, non era in grado di dirlo. L’altro, un non accademico, era tal Alessandro Vellutello (1473-1550), che al contrario sosteneva che Dante avesse lavorato d’inventiva senza preoccuparsi della verosimiglianza di ciò che andava descrivendo e che comunque l’inferno immaginato dovesse essere assai più piccolo di quanto andavano affermando gli accademici, tutt’al più si sarebbe potuto quantificare in un qualcosa pari a 1/1000 dell’intero volume del mondo. La disputa tra le due fazioni era qualcosa di più di un semplice esercizio geometrico-letterario per uomini di cultura. I tifosi si erano accapigliati in duelli verbali senza venirne a capo. Il presidente dell’accademia, Baccio Valori (1535-1606), decise di risolvere la questione interpellando un giovane matematico, brillante e di belle pretese, che sapesse di lettere e di geografia e che potesse finalmente risolvere la questione, una volta per tutte, sperabilmente a favore del Manetti.

Il matematico che fu interpellato allo scopo era Galileo Galilei, introdotto dalle credenziali che abbiamo visto, il quale, partendo dal presupposto che i rimandi spazio-temporali citati da Dante nella prima cantica erano così numerosi, si era convinto che il poeta non avrebbe cominciato la scrittura senza prima essersi fatto un’idea delle dimensioni non solo dell’inferno nella sua interezza, ma anche dei singoli gironi. Nacquero così le “Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante”. Lo scienziato affermò che probabilmente Dante aveva fatto in modo che non potessero essere svelati fino in fondo i ponteggi su cui fondare il poema. Così facendo “ha dato cagione di affaticarsi gran tempo per esplicar questa struttura”.

La prima lezione tende essenzialmente a valorizzare l’opera del Manetti, terminando con la determinazione delle dimensioni di Lucifero. Di seguito Galileo si supera, con una strategia degna delle più riuscite operazioni di marketing contemporanee (allora si sarebbe detto captatio benevolentiae), con una lode all’uomo del committente: “Mirabilmente, dunque, possiamo concludere aver investigata il Manetti la mente del nostro poeta”, e concludendo la prima giornata con un riassunto delle affermazioni tanto care all’accademico, circa le dimensioni delle regioni infernali. La seconda invece prende in esame il lavoro del Velutello, analizzandolo con effettiva imparzialità, salvo poi concludere che le tesi non possono essere sostenute altrettanto bene come quelle del Manetti.

Seguiremo la sintesi del nostro matematico pedissequamente, usando la sua notazione, ovvero esprimendo le dimensioni in miglia e frazioni.

La misura che Dante conosce ed usa circa il raggio della Terra è 3245 e 5/11 di miglia fiorentine, afferma Galileo, corrispondenti a circa 5560 km. Allora la misura era un po’ sottostimata, comunque superiore dell’opinione maggiormente accreditata due secoli più tardi quando Colombo intese raggiungere le Indie navigando verso occidente.

Non possiamo citare tutti i passi che Galileo diligentemente espone. A noi basterà rimarcare soltanto alcuni elementi. Innanzi tutto la terzina:

Tu non hai fatto sì all’altre bolge:

pensa, se tu annoverar le credi, 

che miglia ventidue la valle volge 

[If 29, 7-9]

e quindi al canto XXX:

Cercando lui tra questa gente sconcia, 

con tutto ch’ella volge undici miglia,

e men d’un mezzo di traverso non ci ha.

[If 30, 85-87]

Il succo del ragionamento porta Galileo, da questi a prima vista labili appigli e poche ulteriori stime, a considerare che l’inferno è una voragine conica a gradoni che si apre sotto Gerusalemme per un’ampiezza tale che se la voragine arrivasse fino alla superficie, alla sboccatura, per usare le parole dello scienziato, sulla crosta terrestre segnerebbe una circonferenza, centrata su Gerusalemme e che dalla città santa dista 1700 miglia. Questo significa che l’apertura del cono è di 60°. Per cui il volume dell’apertura risulta essere, parole di Galileo, inferiore a 1/14 del mondo intero. Dice di aver fatto “il conto secondo le cose dimostrate da Archimede ne i libri Della sfera e del cilindro”. Oggi, con un semplice calcolo integrale, possiamo calcolare esattamente il valore pari a 1/14.93.

Ma l’inferno non si apre immediatamente sotto. Dalla superficie terrestre si deve scendere per 1/8 del raggio, ovvero 405 e 15/22 miglia, entro le quali si apre un grande anfratto fatto apposta per gli ignavi. Secondo l’opinione espressa nella Divina Commedia, gli ignavi non li ha voluti nemmeno l’inferno. Per essere fuori, si deve necessariamente supporre l’esistenza di una sorta di intercapedine dove sono condannati a seguire nudi uno stendardo, punti da tafani e vespe mentre ai piedi dei vermi fastidiosi raccolgono il loro sangue misto alle lacrime. L’anfratto deve comunque aprirsi sul fiume Acheronte, dove si trova Caronte che traghetta le anime nell’inferno vero e proprio.

Il primo gradone dell’inferno che i due poeti affrontano è quello del limbo che, secondo i calcoli del Manetti suffragati dallo scienziato toscano, deve essere di 87 e 1/2 miglia. Segue Minosse e il cerchio dei lussuriosi, che può essere raggiunto dopo essersi calati dal limbo di altre 405 e 15/22 miglia, il cui turbine percuote e trascina le anime sopra un gradone ampio 75 miglia. Ancora 405 e 15/22 miglia di discesa per arrivare dove sono puniti i golosi, sotto la continua pioggia ed i latrati di Cerbero, in un gradone ampio 62 e 1/2 miglia. Altri 405 e 15/22 miglia di discesa sono necessari ai viaggiatori per sentire Plutone che dice: “Pape satan, pape satan, aleppe” e per vedere il supplizio degli avari e dei prodighi. Occorre scendere sempre della stessa quantità per giungere al quinto cerchio, il quale è però suddiviso a sua volta in due gironi: il primo è occupato dalla palude Stige, dove sotto Flegias sono puniti gli iracondi e gli accidiosi mentre nel secondo c’è la città di Dite. Entrambi occupano uno spessore di 37 e 1/2 miglia.

Il sesto cerchio è separato dal quinto da una scesa costituita da una rovina di sassi che comunque rimane sempre pari ad 1/8 di raggio terrestre. Anche il sesto cerchio è suddiviso in gironi. Il primo è un lago di sangue, detto Flegetonte, dove i Centauri trafiggono con le loro frecce coloro che in vita furono violenti contro il prossimo, nel secondo si trova il boschetto delle anime dei suicidi, sui ramoscelli dei quali alberi svolazzano rapaci arpie che provocano loro indicibili sofferenze, ed i violenti contro i propri beni, condannati ad esser dilaniati da cagne fameliche. Nel terzo infine sono martirizzati in un cocente deserto sul quale continuamente piovono fiamme dall’alto i violenti contro Dio, la natura e l’arte. È qui che Dante ha modo di incontrare il suo maestro, Brunetto Latini, e di scambiare alcune parole. Dal dialogo viene a sapere i nomi di altri condannati alla stessa pena. Tutti e tre i gironi sono ampi 25 miglia.

Superato il Cocito, uno dei fiumi infernali, i due poeti arrivano nel baratro dove, saliti in groppa a Gerione, il mostro con la faccia di brava persona, Dante e Virgilio affrontano volando l’unico tratto aereo dell’inferno. Gerione li deposita sul settimo cerchio che dista dal precedente 730 e 5/22 miglia, pari ovviamente alla profondità del baratro. Il cerchio vede raccolte le anime dei fraudolenti, suddivisi in dieci bolge, ciascuna è ampia 1 e 3/4 miglia, eccetto l’ultima che è solo 1/2 miglio, per un totale di 16 e 1/4 miglia, tutte collegate tra loro da un ponticello, eccetto la sesta dove il ponticello è andato distrutto durante il terremoto che ha fatto seguito alla morte di Cristo. Rimane un residuo di 1/4 di miglio prima di scendere nel pozzo dei giganti. Le loro dimensioni sono così smisurate che non è difficile per i due poeti essere raccolti nelle loro mani, in particolare in quelle di Anteo ed essere depositati sulla ghiaccia che è l’ultimo stadio dell’inferno, dove si trovano i traditori. Essa è suddivisa in quattro parti: Caina (traditori dei parenti), Antenora (traditori della patria), Tolomea (traditori degli ospiti) e Giudecca (traditori dei benefattori). La profondità del pozzo dei giganti, pari pure alla differenza di quota che la separa dell’ottavo cerchio, è 81 e 1/2 miglia. Rimangono a questo punto per essa 80 miglia di diametro. Sono più che sufficienti a Dante per vedere il conte Ugolino, l’arcivescovo Ruggieri, Bocca degli Abati, frate Alberico, per inciampare contro molte teste intirizzite nel ghiaccio, prima di arrivare all’infernale visione (è proprio il caso di dirlo) di tre uomini, Bruto, Cassio e Giuda, maciullati nelle fauci di Lucifero. Sotto le tre facce delle ali di pipistrello in movimento generano un vento freddo che ghiaccia le acque del fiume Cocito che alimenta la ghiaccia.

La prima lezione termina non prima di aver dato uno sguardo anche alle dimensioni del principe dei diavoli. A Galileo sono sufficienti due terzine per avere quel minimo indizio da permettergli di tentare una stima:

La faccia sua [di Nembrot, uno dei giganti] mi parea lunga e grossa 

come la pina di San Pietro a Roma

ed a sua proporzione eran l’altr’ossa.

[If 31, 58-60]

Si tratta della pina bronzea posta un tempo nel mausoleo di Adriano, alta 3.2 m. Visto che è Dante stesso a dirci nell’ultimo verso della terzina che i giganti sono proporzionati agli altri uomini, comparando le dimensioni della testa con tutto il corpo e trovando poi che:

Lo ’mperador del doloroso regno [Lucifero]

da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia;

e più con un gigante io mi convegno,

che i giganti non fan con le sue braccia.

[If 34, 28-31]

Se si suppone che anche Lucifero sia proporzionato ad un uomo, al pari dei giganti, deve superare 1935 braccia fiorentine. Visto che il braccio fiorentino misura 58,32 cm è ben oltre 1 km! Quanto ecceda questa misura non è dato saperlo ma visto che emerge dal ghiaccio dal petto in su e che il centro di gravità, nonché centro geometrico della Terra deve essere compreso tra l’ombelico e i genitali, come si conviene ad un uomo proporzionato, si ricordi ad esempio l’uomo di Vitruvio, e come si evince dal seguente passo:

Quando noi fummo là dove la coscia

si volge, a punto in sul grosso de l’anche, 

lo duca, con fatica e con angoscia,

volse la testa ov’elli avea le zanche

e aggrappossi al pel com’om che sale, 

sì che n’inferno i’ credea tornar anche. 

[If 34, 76-81]

allora si può concludere che non deve superare di molto le dimensioni “minime” richieste per accordarsi con la profondità della ghiaccia. Galileo butta là la cifra tonda di 2000 braccia. In questo modo il cerchio si chiude ed ha termine la prima lezione.

La seconda giornata è un po’ più noiosa perché ritorna nuovamente sulle stesse considerazioni della lezione precedente, ma stavolta prendendo in esame le misure del Velutello che, se prese per buone, alla prova dei fatti, conducono a degli esiti contraddittori o quanto meno incerti. L’unico elemento innovativo, sollevato dal Vellutello, rigin senso orario o antiorario. Galileo liquida subito la questione e concluarda il fatto che i due poeti abbiano viaggiato ude la sua arringa con le seguenti parole, che incoronano il Manetti vincitore della sfida: “Ma perché o procedessero su la destra o su la sinistra [in senso antiorario o orario], non molto importa al principale intendimento nostro, che è stato di dichiarare il sito e figura dell'Inferno di Dante, ed insieme difendere l'ingegnoso Manetti dalle false calunnie ingiustamente sopra tal materia ricevute, e massime perché non lui solo ma tutta la dottissima Academia Fiorentina pungevano, alla quale per molte cagioni obligatissimo mi sento; avendo, per quanto la bassezza del mio ingegno mi concedeva, dimostrato quanto più sottile sia l'invenzione del Manetti, porrò fine al mio ragionamento”.

Il discorso si ferma qui. L’immagine che fa da frontespizio delle varie edizioni della Divina Commedia, con l’inferno schematizzato da una cavità conica è l’idea che il Manetti aveva fatto propria, suffragata con le due lezioni da Galileo.

In conclusione vogliamo comunque dare un cenno che, in qualche maniera, riabilita anche il Vellutello. C’è un elemento che non può essere sfuggito a Dante e che tuttavia nelle lezioni viene taciuto (d’altra parte a Galileo era stato richiesto di dirimere la controversia sulle dimensioni dell’inferno ed il suo silenzio in merito è legittimo). Dal momento in cui Dante e Virgilio si staccano dal pelame dell’irsuto Lucifero (“conviensi dipartir da tanto male”) a quando escono “per un pertugio tondo ... a rivedere le stelle”, passano alcune ore, diciamo fra 12 e 24; ci sono problemi di longitudine che Dante tace, visto che a sera siamo ancora nell’inferno e che, usciti nel purgatorio, è ancora notte (vedono le stelle, non è ancora cominciato il crepuscolo civile e il viaggio si svolge intorno all’equinozio). Abbiamo detto che secondo la concezione dantesca il raggio del mondo doveva essere sui 5560 km. Ciò significa che il viaggio, in risalita, deve essere stato effettuato, a piedi, fra 230 km/h e 460 km/h. D’accordo che i due s’incamminano “senza cura aver d’alcun riposo” ma forse le esigenze scenografiche costringono Dante ad una forzatura del passo un po’ eccessiva, che tuttavia ci sentiamo in dovere di perdonargli quale licenza poetica.

Possiamo immaginare che, vi fossero stati i presupposti, Galileo non si sarebbe tirato indietro a valutare l’altezza della montagna del purgatorio o, vista la passione per gli astri, le dimensioni delle sfere paradisiache, nell’ottica aristotelica di Dante, verso la quale forse il nostro scienziato nutriva già più che qualche dubbio. Ma per questo mancarono i presupposti: una diatriba fra eruditi ed un committente disposto a pagare profumatamente. Siamo comunque sicuri che non sarebbe sgradito, né tanto meno irriverente nei confronti di Galileo, se qualcuno volesse imbarcarsi nell’impresa.

 

Prof. Lorenzo Brandi

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